L’AUTONOMIA SICILIANA TRA OBLIO E RILANCIO NELLA PROSPETTIVA DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE
di Gaetano Armao (Docente di diritto amministrativo europeo e contabilità pubblica nell’Università di Palermo)
Una sfida all’oblio della specialità siciliana in atto è sicuramente posto dall’imminente riforma costituzionale che incide profondamente sull’ordinamento regionale.
Sembra utile ricordare che il d.d.l. di riforma costituzionale, adesso all’esame della Camera per l’approvazione definitiva presentato al Consiglio dei ministri il 31 marzo 2014, prevedeva l’immediata omologazione tra Regioni ordinarie e speciali.
In particolare, l’art. 33, comma 13, del d.d.l. costituzionale – e tra le disposizioni transitorie – nella sua prima versione prevedeva che le norme della legge di riforma costituzionale si applicassero “anche alle Regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e Bolzano sino all’adeguamento dei rispettivi Statuti”, in guisa da determinare, sul piano delle competenze legislative, la sostanziale ed unilaterale equiparazione delle Regioni ad autonomia differenziata con quelle ordinarie .
È apparso immediatamente chiaro che si trattava di uno dei molteplici punti forieri di indubbie perplessità del testo di riforma costituzionale approvato dal Governo, peraltro rafforzate dalla circostanza della permanenza in vigore dell’art. 10 della l. Cost. n. 3 del 2010 che – come noto – contiene la c.d. “clausola di maggior favore per le autonomie”.
Adesso, l’art. 39, comma 13, della legge di revisione costituzionale, prevede che le nuove disposizioni relative al Titolo V della Costituzione non si applichino alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano “fino alla revisione dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome”, mentre, in termini generali, aumentano le materie di competenza esclusiva dello Stato e viene soppressa la competenza concorrente tra Stato e Regioni.
Diviene quindi ineludibile una profonda revisione – e non più, secondo la prima versione della norma di riforma, l’adeguamento – dello Statuto speciale ed, in generale, una riconsiderazione degli spazi di autonomia speciale nel nuovo assetto costituzionale.
Se la norma richiamata della legge di revisione costituzionale consolida il principio pattizio affidandone la declinazione alla legge rinforzata che necessita della previa intesa tra Stato e la Regione ad autonomia differenziata, è altrettanto vero che a fronte del mutamento imposto dalla riforma costituzionale si può reagire, in termini recessivi, attraverso una sterile difesa di prerogative ormai incompatibili con le dinamiche ordinamentali o rilanciando l’autonomia in una prospettiva europea di garanzia dell’insularità.
Nella fase di transizione costituzionale nella quale si trova l’autonomia regionale il negoziato sull’attuazione del federalismo fiscale assume un ruolo di rilievo. È evidente, infatti, che in sede di revisione dello Statuto di autonomia si partirà proprio dalla intese raggiunte e, più in generale, dall’assetto complessivo delle vigenti relazioni finanziarie tra Regione e Stato.
Ma, a differenza delle tre Regioni ad autonomia differenziata del nord e della stessa Sardegna, la Sicilia è sostanzialmente inerte da tre anni, se non addirittura scivolata verso un approccio remissivo e rinunciatario.
Come evidenziato anche nei documenti elaborati in materia dallo Stato, le norme dello Statuto in materia finanziaria, potenzialmente “più evolute” di quelle delle altre regioni differenziate, non hanno avuto “lo sviluppo che pure ci si poteva attendere” sicché il “disegno tratteggiato nello Statuto è rimasto incompiuto”.
La sede prevista dal legislatore per la definizione degli accordi di cui all’art. 27, comma 7, della legge n. 42 del 2009 è il «tavolo di confronto» tra il Governo e ciascuna regione a statuto speciale.
Ebbene, nonostante sia stato istituito anche per la Regione siciliana il 24 maggio 2012, non solo, dopo i primi passi esso non ha ad oggi prodotto alcun risultato, ma a tale inerzia non si è sostituita la capacità di ottenere in sede legislativa risultati che incrementassero le entrate regionali, come pure avvenuto per le altre Regioni speciali. Addirittura, in alcuni interventi legislativi statali, sono state riviste, in termini assolutamente riduttivi, entrate di spettanza regionale.
Giova ricordare che a seguito dei numerosi ricorsi presentati dalla Regione, e già dal 2010, la Corte costituzionale ha riconosciuto in molteplici interventi legislativi statali la violazione dell’autonomia finanziaria della Regione siciliana e ciò nonostante la obsolescenza delle norme di attuazione dello Stato in materia (d.P.R. n. 1074 del 1965)- più volte deprecata dalla stessa Corte – proprio perché ormai incompatibili con l’ordinamento tributario, non offra se non assai limitate guarentigie.
In particolare, il Giudice delle leggi per ben sette volte negli ultimi due anni ha ritenuto violate le prerogative finanziarie della Regione (si tratta delle sentt. nn. 145 e n. 207 del 2014, 65, 131, 176, 246 del 2015 ed, infine, la n.31 del 2016).
Ma la conclusione dell’accordo tra il Presidente della Regione ed il Ministro dell’economia per il 2014-2017, stipulato il 9 giugno 2014, nonostante non abbia condotto al pattuito ritiro dei ricorsi (circostanza che ha consentito alla Corte di pronunciarsi non senza constatare discrasie nel comportamento regionale), determina comunque gravissimi effetti finanziari per le entrate della Regione. Sulla scorta della concordata rinuncia da parte di quest’ultima, così, l’Agenzia delle entrate trattiene il gettito proveniente dai tributi di cui pur si è accertata la spettanza, in virtù del riconoscimento che, in termini illegittimi, ha sancito che l’aumento di gettito fosse riservato al bilancio statale.
La grave scelta del Governo regionale di soggiacere all’adeguamento dell’ordinamento finanziario regionale in termini unilaterali: ora con atti normativi o addirittura amministrativi generali dello Stato, ora della stessa Regione, a seguito di trattative incompatibili con le previsioni di cui al art. 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42, è stata stigmatizzata dalla Corte costituzionale (si veda per tutte la sent. n.238 del 2015). Tale scelta, infatti, deve ritenersi in contrasto con legalità legale, in considerazione del natura della legge di attuazione della riforma costituzionale che connota la richiamata normativa sul federalismo fiscale, ma sopratutto la legalità costituzionale.
In tal senso appare opportuno precisare che la norma da ultimo citata prevede che le Regioni speciali, nel rispetto degli Statuti di autonomia, “concorrono al conseguimento degli obiettivi di perequazione e di solidarietà ed all’esercizio dei diritti e doveri da essi derivanti”, nonché al patto di stabilità interno «secondo criteri e modalità stabiliti da norme di attuazione dei rispettivi statuti». Ma tali fonti non hanno ancora provveduto a disciplinare la materia e non hanno, allo stato, recepito né declinato il principio pattizio nelle forme necessarie a renderlo opponibile al legislatore ordinario.
In tal guisa l’art. 27 della disciplina del federalismo fiscale determina una “riserva di competenza a favore delle norme di attuazione degli statuti speciali per la modifica della disciplina finanziaria degli enti ad autonomia differenziata” (sentenza n. 71 del 2012), tale da configurare un “presidio procedurale della specialità finanziaria di tali enti” (sentenza n. 241 del 2012). Ne discende che, una deroga alle procedure sancite dal richiamato art. 27 della legge n. 42 del 2009, “non può trasformarsi da transitoria eccezione in stabile allontanamento delle procedure previste da quest’ultimo articolo” (così ancora la già richiamata sent. n.238 del 2015) senza determinare una sostanziale vulnerazione delle guarentigie della specialità scolpite dalla normativa del 2009.
Esattamente il contrario di quel che è avvenuto negli ultimi tre anni con la compiacenza della Regione e con effetti sicuramente dannosi per i suoi equilibri di bilancio e la conseguente crescita dell’indebitamento.