di Gaetano Armao
Facoltà di Scienze Politiche – Università di Palermo
1. Il decreto legge n. 138 del 2011 evidenzia molteplici profili di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 117 e 119 della Costituzione, degli artt. 14, 15, 17, 36, 37 e 43 dello Statuto regionale siciliano e delle relative norme di attuazione dello Statuto in materia finanziaria (per la nota inerzia statale, che mai ha consentito all’adeguamento all’evoluzione legislativa, sono infatti ancora quelle contenute nel D.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074, in vigore dal 1966).
Pur incidendo su molteplici delle disposizioni richiamate che assegnano alla potestà legislativa primaria (o esclusiva) materie quali l’ordinamento delle autonomie locali, l’organizzazione amministrativa o concorrente quali il commercio e le attività produttive, il decreto legge non contempla alcuna clausola di salvaguardia delle prerogative regionale, neanche temporalmente delimitata. Con l’implicita conseguenza di determinare il sostanziale azzeramento delle competenze costituzionalmente attribuite.
Soltanto una clausola di salvaguardia che preservi formalmente la prerogative statutarie delle Regioni ad autonomia differenziata – peraltro già condivise dalla Commissione affari costituzionali del Senato nel parere reso ieri sul decreto legge – può scongiurare che la manovra sia gravata da impugnative da queste Regioni, pregiudicando l’autorevolezza, anche internazionale, di un’operazione di risanamento che e’ necessaria per il nostro Paese e che va condivisa nei saldi complessivi.
Orbene, non può revocarsi in dubbio che la situazione del debito sovrano del nostro Paese e, più in generale, di quella economico-finanziaria impone (finalmente) l’adozione di drastiche misure di contenimento della spesa e di risanamento dei conti. Congiunture che, se tempestivamente avvertite, avrebbero dovuto indurre all’adozione di tali misure di riequilibrio già da tempo, evitando di intraprendere la strada di un improbabile e rabberciato federalismo fiscale che rischia di risultare ormai solo di facciata, non risultando praticabili meccanismi perequativi.
E’ stato più volte evidenziato che quasi il 50% degli oltre 87 miliardi di tagli determinato dalle tre ultime manovre e’ stato posto a carico delle Regioni, ed in tale contesto la Regione siciliana risulta l’ente più onerato di tale processo di contenimento della spesa, determinando un’ingiustificata ed irragionevole penalizzazione per il livello regionale. Appare, in questo senso, del tutto ingiustificato che il peso maggiore in termini di tagli si faccia gravare ancora sulle Regioni a statuto speciale (in questa manovra, come in quella precedente di luglio), ed in particolare su quelle del Mezzogiorno.
Atteso quanto emerge dalla nuova manovra governativa si aggiungono ulteriori 1,6 miliardi di tagli circa per i prossimi due anni a carico di Regione ed enti locali siciliani ( 800 per il 2012 e 400 per il 2013, oltre a quelli direttamente incidenti sulle autonomie locali della Regione), che si sommano così a quelli già previsti dalla manovra di luglio e corrispondenti nel 2012 a 471 milioni e nel 2013 ad 869 milioni per la Regione, ed almeno 200/250 per gli enti locali siciliani. Ne discende che per i prossimi due esercizi i tagli di spesa, se correlati ai minori trasferimenti raggiungono i quattro miliardi di euro.
Un peso insostenibile per la Regione e per l’economia siciliana, al quale, peraltro, si accompagna il rischio di rallentare anche la spesa europea (che al contrario necessita di una accelerazione), comprimendo, stante la portata del patto di stabilita’, la possibilità del necessario cofinanziamento regionale e quindi svolgendo un effetto depressivo.
Se il sud non cresce velocemente non potrà offrire al Paese il contributo al raggiungimento di almeno due quei punti di Pil che sono necessari per uscire dalla crisi.
2. La carenza di una generale norma di salvaguardia della specialità regionale, stante la molteplicità delle materie di competenza regionale sulle quali incide il decreto legge, risulta poi ulteriormente aggravata dalla diretta efficacia che talune disposizioni svolgono su materie di competenza esclusiva delle autonome differenziate.
Un primo emblematico caso e’ offerto dall’articolo 2, comma 36, del citato d.l. laddove si prevede – con formula invero assai ambigua, non sussistendo una nozione frammentaria, bensì unitaria, di erario pubblico – che “le maggiori entrate derivanti dal presente decreto sono riservate all’Erario, per essere destinate alle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, anche alla luce della eccezionalità della situazione economica internazionale.”
Peraltro, l’articolo 19, comma 1 dispone che alle maggiori spese derivanti dall’attuazione dell’articolo 1 commi 16 e 25, dall’articolo 2 comma 1, dall’articolo 5 e all’articolo 7, pari complessivamente a 4.154,6 milioni di euro per l’anno 2012 a 1.280 milioni di euro per l’anno 2013, 1.289 milioni di euro per l’anno 2014, 323 milioni di euro per l’anno 2015 e 16 milioni di euro per l’anno 2016, che aumentano in termini di indebitamento netto a 1.330 milioni per l’anno 2013 ed a 1.439 milioni per l’anno 2014, si provvede con quota parte delle maggiori entrate derivanti dal decreto legge medesimo.
Nell’ipotesi in cui, come sembra evincersi a prima lettura delle norme in commento, debba ritenersi che il maggior gettito prodotto dalle nuove imposte sia di pertinenza statale si determinerebbe la violazione del principio dell’integrale spettanza delle imposte dirette alla Regione siciliana sancita dallo Statuto (artt. 36 e 37) e dalle norme di attuazione, seppur risalenti.
Al riguardo giova ricordare che a fronte delle entrate statutariamente previste, la Regione – sia nel regime provvisorio dei rapporti finanziari fra lo Stato e la Regione la cui disciplina era fissata dal D.Lgs. 12 aprile 1948, n° 507, sia nel successivo regime determinato dalle norme di attuazione dello Statuto in materia finanziaria, approvate con D.P.R. 1074 del 1965 – poté fruire, salvi striscianti ostruzionismi spesso insorgenti nella stessa indicata ottica, di tutte le entrate previste dagli artt. 36 e 37 dello Statuto.
Ebbene, come precisato in fattispecie analoga da parte della Corte costituzionale con recente pronuncia che ha censurato la normativa statale (che avrebbe attribuito all'”erario” i proventi dalla lotta all’evasione fiscale sul credito d’imposta) “in base al principio stabilito dall’art. 2 del d.P.R. n.1074/1965,…spettano alla Regione siciliana tutte le entrate tributarie erariali riscosse nell’ambito del suo territorio, dirette o indirette, comunque denominate” (Corte Cost. 152/2011).
Vero e’ che le disposizioni richiamate del decreto legge tendono a configurarsi quale riserva all’erario dello Stato di nuove entrate, avendo riguardo ai requisiti caratterizzanti la legittimità di detta riserva statale siccome previsti dell’art.2 del D.P.R. n.1074/65 recante le norme di attuazione in materia finanziaria della Regione Siciliana. A mente delle citate disposizioni attuative di disposizioni dello Statuto, infatti, lo Stato può riservarsi nuove entrate tributarie riscosse nel territorio della Regione, laddove le stesse siano destinate “con apposite leggi alla copertura di oneri diretti a soddisfare particolari finalità contingenti o continuative dello Stato specificate nelle leggi medesime”. Con la conseguenza i presupposti per valutare la legittimità costituzionale della riserva allo Stato delle maggiori entrate, vanno individuati:
nella novità dell’entrata (intesa tanto come novità del tributo in se stesso o maggiorazione di entrate derivanti da tributo già esistente- cfr. Corte Cost. n.49/1972, n.429/1996);
nella specifica finalizzazione (contingente o continuativa che sia).
Alla stregua di tale pista interpretativa del citato art.2 del D.P.R. 1074/1965 potrebbero considerarsi soddisfatti dall’attuale articolazione delle disposizioni in commento, così da sottrarre al criterio di generale spettanza regionale di cui al citato art. 36 dello Statuto le maggiori entrate derivanti dallo stesso D.L. 138/2011, laddove si consideri rientrante nella nozione di “particolare finalità” l’esigenza prioritaria del risanamento della finanza pubblica, secondo un canone ermeneutico di più ampio spettro che sembra potersi avallare alla luce della giurisprudenza della stessa Corte Costituzionale in materia di limitazioni dell’autonomia finanziaria delle regioni per finalità di riequilibrio della finanza pubblica (cfr. ex multis Corte Cost. n. 169/2007).
Tuttavia tale orientamento ermeneutico non può trovare applicazione nella fattispecie che ci occupa.
Il principio richiamato va, infatti, riguardato in relazione al maggior onere in termini di tagli alla spesa che il decreto legge (art.1) – in aggiunta a quanto già determinato dal D.L. 6 luglio 2011, n. 98 come convertito con L. 15.7.2011, n.111, avverso il quale la Regione siciliana sta proponendo forma impugnativa costituzionale – determina sulle autonomie speciali (con tagli che superano complessivamente 1,2 md di euro l’anno per la sola Sicilia); sotto tale profilo appare evidentemente non proporzionale il pregiudizio arrecato alla Regione siciliana con la palese vulnerazione delle prerogative statutarie in materia finanziaria sia in termini di penalizzazione sulle entrate che di imposizione di minori spese in misure ridondante rispetto alle altre Regioni.
Va, infine, osservato che la richiamata disposizione normativa del decreto legge, mentre riserva allo Stato le maggiori entrate ivi previste, dall’altro non assicura – laddove ha previsto la riduzione dal 27,5 al 20 per cento dell’aliquota sulle rendite finanziarie (conti correnti, liberi o vincolati, e quelli postali) – la salvaguardia del gettito già spettante alla Regione siciliana, in tal senso determinando un pregiudizio alle finanze regionale nell’omettere ogni previsione di misure compensative al riguardo.
3. Ad analoghe censure presta, poi, il fianco l’art. 3 che modifica l’ordinamento delle attività economiche, com’e noto di competenza concorrente della Regione Siciliana, laddove prevede un anno per l’obbligo di conformazione, e stabilisce, altresì, al quarto comma, che l’inutile decorso del tempo, piuttosto che determinare l’illegittimità costituzionale sopravvenuta costituisce “elemento di valutazione della virtuosita’ dei predetti enti ai sensi dell’art. 20, comma 3, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111”.
Salva ed impregiudicata restando l’esigenza di modernizzare l’ordinamento e di introdurre elementi di concorrenzialità – sui quali tuttavia la Corte costituzionale ha posto dei limiti ben precisi – non si può determinare, per di più con atto avente forza di legge ordinaria, uno stravolgimento del riparto delle competenze, spostandone l’asse sul piano delle relazioni economiche tra Stato e Regione, in guisa da determinare una sorta di approccio teleologico all’esercizio delle competenze statutariamente attribuite alle Regioni, con le previsione di un premio finanziario se il ‘risultato legislativo’ conseguito nell’esercizio dell’autonomia risulta coerente con le aspettative del Governo centrale.
Tale svilimento delle prerogative regionali, se applicato a tutte le competenze legislative e perché no amministrative delle Regioni, porterebbe alla sostanziale degradazione dell’autonomia regionale a quella di un ente strumentale dello Stato, in palese violazione dell’art. 5 Cost., che lo costituisce quale principio fondamentale dell’ordinamento della Repubblica, e di tutto il Titolo V della Costituzione novellato.
Occorre pertanto rinvenire, fuori da sbrigative (se non approssimative) forme di trasposizione normativa, meccanismi che accelerino quel regionalismo cooperativo che la Corte costituzionale ha più volte individuato quale via maestra per il contemperamento tra esigenze di unita’ e pluralità dell’ordinamento costituzionale
4. Del tutto illegittima risulta la previsione di cui all’art. 4 primo comma, lett. e) che impone l’istituzione dei revisori dei conti quale organo di vigilanza sulla regolarità contabile, finanziaria ed economica della gestione dell’ente, (e quindi anche sull’attività legislativa) composto da professionisti scelti per estrazione fra gli iscritti, al livello regionale, al Registro dei revisori contabili.
Siffatta previsione, oltre ad incidere direttamente sull’autonomia regionale così come delineata dagli statuti regionali e con semplice legge ordinaria – e pertanto, sotto tale profilo, del tutto incompatibile con l’attuale assetto costituzionale -, costituirebbe altresì un’inutile duplicazione del ruolo, garantito dalla Costituzione, della Corte dei conti che svolge un controllo contabile ed amministrativo sull’attività amministrativa e sul bilancio della Regione oltre a quello del Commissario dello Stato, al quale e’ assegnato il compito di adire, anche per quanto concerne la compatibilità delle leggi regionali con i principi finanziari sanciti dalla Carta fondamentale, la Corte costituzionale.
Ulteriore e non meno rilevante profilo di pregiudizio alle prerogative statutarie e costituzionali in precedenza richiamate si rinviene all’art. 14, secondo comma, ove si prevede, con riguardo alla condivisile ed opportuna riduzione del numero dei consiglieri e assessori regionali e che “l’adeguamento ai parametri di cui al comma 1 da parte delle Regioni a Statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano costituisce condizione per l’applicazione dell’articolo 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42, nei confronti di quelle Regioni a statuto speciale e province autonome per le quali lo Stato, ai sensi del citato articolo 27, assicura il conseguimento degli obiettivi costituzionali di perequazione e di solidarieta’, ed elemento di riferimento per l’applicazione di misure premiali o sanzionatorie previste dalla normativa vigente”.
Ebbene, resta del tutto impregiudicato che occorre conseguire anche a livello regionale una drastica riduzione del costo degli apparati istituzionali regionali (ed in Sicilia si sta già procedendo in materia, anche prima ed oltre l’incerta disciplina statale, sia da parte della Giunta regionale, che in merito ha già adottato la delibera 5.8.2011, n.207, seguita dalla Circolare applicativa di questo Assessorato del 18.8.2011, n. 4976/gab, con risparmi previsti per circa 100 milioni di euro, che con le necessarie determinazioni degli organi parlamentari competenti in materia), appare tuttavia incongruo ed irragionevole applicare misure premiali e/o sanzionatorie nei confronti delle Regioni ad autonoma differenziata rispetto ad attività che deve necessariamente porre in essere il Parlamento nazionale modificando con legge Costituzionale gli statuti speciali che prevedono il numero dei parlamentari (lo Statuto siciliano nel numero di 90, art.3).
Ne discende che appare paradossale che il mancato conseguimento dell’obiettivo auspicato – la riduzione del numero dei componenti dell’Assemblea – possa essere ascritto alla Regione, che si troverebbe così a soggiacere all’applicazione di misure non direttamente discendenti da propri atti normativi, sopratutto se tali misure vengono correlate a meccanismi di riequilibrio e perequazione inerenti l’attuazione del federalismo fiscale che costituiscono condizione per il conseguimento degli obiettivi costituzionali di perequazione e di solidarietà e che,pertanto, sono intangibili attenendo a diritti fondamentali di cittadinanza.
5. Ad analoghe censure si prestano infine gli articoli 15 e 16 del decreto legge in questione relativi alla riduzione di Province e Comuni di minori dimensioni.
Giova ricordare in merito che la Regione Siciliana ha potestà legislativa primaria in materia di autonomie locali (artt. 14, lett. o) e 15 dello Statuto), sicché ogni determinazione in materia di Comuni e Province non può che spettare alla sua competenza esclusiva legislativa.
Appare evidentemente apprezzabile lo sforzo del Governo nazionale di contenere il fenomeno della polverizzazione di comuni, concentrato sopratutto in alcune aree del Paese, e di realizzare la eliminazione delle province minori. Ma se nel primo caso, in Sicilia si rinvengono solo 31 comuni che hanno meno di 1000 abitanti (si e’ calcolato che il risparmio, tra il venir meno di Consigli comunali e Giunte si aggirerebbe attorno a 330.000 euro annui), mentre, nel secondo caso, ai sensi dell’art. 15 dello Statuto, la Regione ha già manifestato l’intendimento di procedere in sede legislativa alla soppressione di tutte e 9 le Province regionali (mai incrementate dall’entrata in vigore dello Statuto) con il contemporaneo trasferimento delle funzioni di area vasta ai liberi consorzi di comuni, provvedendo altresì a varare definitivamente le aree metropolitane di Palermo, Catania e Messina.
Ebbene, salvo ed impregiudicato restando il condiviso obiettivo del risanamento finanziario e del contenimento dei costi di funzionamento degli apparati istituzionali, non può revocarsi in dubbio che tali scelte pertengano all’autonomia regionale, quando, come nell’ultimo caso ricordato, non siano direttamente previsti dallo Statuto.
Avuto riguardo ai Comuni, ad esempio, la Regione si e’ più efficacemente orientata a perseguire tali obiettivi, stante il numero esiguo dei c.d. ‘comuni polvere’ in Sicilia, mediante un vincolo agli enti locali di gestione integrata delle funzioni entro il breve termine di 12/18 mesi (in tal senso di muove la proposta di legge finanziaria all’esame della Giunta regionale). Potrebbe in tal guisa, ed in termini più coerenti con l’obiettivo di conseguire un congruo contenimento della spesa pubblica, prevedersi l’obbligo per i comuni con meno di 15.000 abitanti di esercitare in forma associata le sei funzioni fondamentali loro spettanti ai sensi dell’articolo 21, comma 3, della legge n. 42 del 2009 e successive modifiche ed integrazioni.
Pur nei molteplici limiti all’esercizio della potestà legislativa esclusiva in materia di enti locali della Sicilia che la Corte Costituzionale ha posto (per esempio, in materia di pubblico impiego privatizzato degli EE.LL., ove si e’ determinata una sostanziale parificazione delle autonomie differenziate rispetto alle Regioni a statuto ordinario v., da ultimo, sentenze n. 106/2005; n. 282/2004, n. 95/2007 e 176/2010), non si e’ mai giunti a ritenere un limite talmente pregnante da vulnerare del tutto la specifica competenza normativa regionale.
6. Infine, va evidenziata l’assoluta irragionevolezza della disciplina del patto di stabilita interno e dei parametri di virtuosità da esso contemplati, anche alla luce degli ulteriori livelli di contenimento della spesa che la manovra impone alle Regioni a statuto speciale, sopratutto del Mezzogiorno aggravando e rallentando i processi di spesa dei fonti europei.
Così com’e’ strutturato il patto di stabilita’ interno, appesantito dalla manovra in questione, risulta in contrasto con i principi di ragionevolezza, proporzionalità e solidarietà sanciti dalla Costituzione.
Come già evidenziato nei documenti elaborati dalla Conferenza delle Regioni, i vincoli imposti dal Patto di Stabilità interno, dai cui conteggi è attualmente esclusa la sola quota comunitaria del contributo pubblico sulle singole operazioni, costituiscono un freno alla spesa e limitano fortemente la dinamica attuativa dei programmi. Ciò è tanto più vero per le linee di intervento i cui beneficiari sono in larga misura enti territoriali di livello sub regionale i quali, anche a causa dei tagli sui fondi ordinari, hanno gravissime difficoltà ad effettuare pagamenti sugli interventi cofinanziati.
Al fine di superare tale criticità e per assicurare un’effettiva accelerazione della dinamica finanziaria dei programmi operativi europei, anche in funzione anticiclica, va introdotta la nettizzazione del calcolo del Patto di Stabilità dell’intera quota pubblica dell’investimento (quota comunitaria, come già è, ma anche nazionale/regionale), superando un vincolo che altrimenti si risolverebbe in un profilo di incostituzionalità, al fine di renderne realmente incidente l’effetto appare, inoltre, necessario che nella nettizzazione si tenga conto, ove esistente, anche della quota di cofinanziamento a carico degli enti locali.
In tal senso occorre ricordare quanto precisato dallo stesso Commissario Europeo agli Affari Regionali Hahn nella lettera del 13 maggio 2011 al Ministro Frattini che in merito ha avuto modo di osservare come “bisognerebbe riflettere…sull’assoggettamento del cofinanziamento nazionale al Patto di Stabilità interno che non fa altro che ritardare l’assunzione degli impegni e l’erogazione dei pagamenti alle imprese”.
7. Sul piano dell’attuazione del federalismo fiscale la Regione siciliana, nel rispetto delle previsioni della legge n. 42 del 2009 e succ. mod. ed int., ha da mesi formalmente rassegnato la sua posizione indicando i termini per la definizione della trattativa e l’emanazione delle nuove norme di attuazione dello Statuto in materia finanziaria che superino quelle del 1965 e diano finalmente riscontro alle previsioni, in particolare degli artt. 36,37 e 38, da troppo tempo disapplicate.
D’altronde, la stessa Corte costituzionale ha più volte indicato nel mancato adeguamento delle norme di attuazione in materia finanziaria una vulnerazione delle prerogative statutarie, sicché ogni ulteriore dilazione si risolve in danno della Sicilia e dei suoi interessi.
Già nel novembre scorso la Regione ha investito di tale questione sia il Governo nazionale che la Commissione paritetica; le trattative in merito tuttavia, nonostante i molteplici solleciti provenienti dalla Regione, ed il completamento degli accordi già intervenuto per altre Regioni ad autonomia differenziata, languono ed occorre una nuova azione di stimolo politico per concludere tempestivamente ed in modo completo l’iter approvativo.
In tale contesto, ed in questo senso si iscrive la costante azione rivendicativa svolta dalla Regione in questi mesi, dovranno collocarsi anche le tematiche, cruciali per il fidentino della Sicilia, della perequazione fiscale e della perequazione infrastrutturale, che deve andare ben ultra le striminzite concessioni del c.d. Piano del sud, con il quale si sono soltanto riassegnate le (ridotte) risorse finanziarie Fas.
Anche se non può omettersi di osservare che i tagli sui fondi di perequazione fiscale determinati dalle due manovre del 2011 ed il differimento per gli investimenti di perequazione infrastrutturale rendono impercorribile il federalismo fiscale così come disegnato dalla legge n. 42 del 2009 e dai decreti attuativi. Conclusione, quest’ultima, che la Sicilia ha tratto da tempo, e che adesso appare confortata anche dalle prese di posizione delle altre Regioni.
Lo ha precisato il Presidente della Repubblica, senza gli strumenti di perequazione previsti dal legislatore il federalismo fiscale imbocca una strada che conduce alla spaccatura del Paese e questo e contrario alla Costituzione.
Palermo, 26 agosto 2011