L’AUTONOMIA SICILIANA TRA OBLIO E RILANCIO NELLA PROSPETTIVA DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE
di Gaetano Armao (Docente di diritto amministrativo europeo e contabilità pubblica nell’Università di Palermo)
La Sicilia – che dell’autonomia ha fatto un tratto indelebile della sua storia millenaria, sempre rivendicata e troppo poco riconosciuta – e’ certamente vittima di una evidente asimmetria tra le aspirazioni ed i risultati conseguiti, una vera e propria ipostatizzazione della volontà. La costituzione del 1812 costituisce l’espressione di un processo elitario, in buona parte eterodiretto che, come i coevi apparati effimeri delle feste di S. Rosalia, sparisce velocemente come è apparso nella controversa vicenda del primo ‘800 europeo.
Un innovativo modello di assetto costituzionale che, seppur “ricco e pluralistico dal punto di vista dell’ispirazione politica”, era applicato, però, ad un sistema semi-feudale. Un modello, strenuamente propugnato da pochi ed illuminati esponenti della attardata aristocrazia e del clero siciliano (i principi Carlo Cottone di Castelnuovo e Giuseppe Emanuele Ventimiglia di Belmonte, l’Abate Paolo Balsamo) che ha trovato, peraltro, il decisivo apporto nelle risorse finanziarie e nelle forze armate inglesi di stanza in Sicilia. Si realizza così la temporanea vittoria sul feudalesimo e sui privilegi nobiliari che tanto hanno nuociuto allo sviluppo della Sicilia. Tuttavia, le contraddizioni della società siciliana ebbero a riflettersi, sino a deflagrare, sull’attuazione di quel modello costituzionale.
Il governo liberale, infatti, già nel 1813, dovette confrontarsi con la dicotomia tra una Camera dei pari fortemente reazionaria – e ben presto già pentita di aver rinunciato ai diritti feudali, alla quale era approdata per puro calcolo convinta di rafforzare il proprio ruolo – ed una maggioranza radicale e riformatrice alla Camera dei comuni, composta da borghesi e nuovi ricchi, addirittura critica nei confronti di una costituzione ritenuta una “impostura dei baroni”. Sino all’oblio: la giovanissima Costituzione cessa, infatti, con tutte le c.d. ‘libertà della nazione siciliana’, nel dicembre 1816, a seguito della costituzione del Regno delle Due Sicilie e l’assorbimento in esso del Regnum Siciliae.
Si assiste, così, al prevalere del ‘modello inglese’ sulla spinta della fragile alleanza tra il baronaggio e la rafforzata borghesia contro l’assolutismo regio, ciò che induce il sovrano Borbone ad accettarne le conseguenze sul piano della riallocazione dei poteri, con un forte inserimento di quest’ultima nel processo decisionale di governo (decision making).
Si tratta di una Costituzione appena applicata e mai formalmente abrogata. Questa, troppo semplicisticamente accostata a quella coeva di Cadice – dalla quale si discostava, principalmente, anche se non esclusivamente, per la scelta del modello parlamentare bicamerale imperfetto rispetto a quello monocamerale – rappresenta, comunque, il consolidarsi del costituzionalismo europeo continentale, liberale ed antinapoleonico, fortemente ancorato all’esperienza britannica, seppur ispirata ai principi della rivoluzione francese.
La Costituzione di Palermo – votata da un’assemblea deliberante, e non solo concessa dal re – è stata fonte di ispirazione per i regimi di monarchia costituzionale europea e contiene la puntale dichiarazione di diritti inviolabili di cittadinanza: “niun siciliano potrà essere arrestato, esiliato, o in altro modo punito, e turbato nel possesso e godimento de’ suoi diritti e de’ suoi beni, se non in forza delle leggi d’un nuovo Codice, che sarà stabilito da questo Parlamento e per via di ordini, e di sentenze de’ magistrati ordinarii, ed in quella forma, e con quei provvedimenti di pubblica sicurezza, che diviserà in appresso il Parlamento medesimo”(art. X delle Basi) ed un articolato impianto organizzativo incentrato sulla tripartizione elaborata da Montesquieu “Che il potere giudiziario sarà distinto ed indipendente dal potere esecutivo e legislativo” (art. IV della Basi).
Una Costituzione che sceglieva l’abolizione dei vincoli feudali e dei fedecommessi, l’introduzione di un sistema di garanzie della proprietà privata, la statuizione della libertà di stampa, la previsione dell’obbligatorietà dell’istruzione, l’introduzione di una legislazione sanitaria che prevedeva l’obbligatorietà delle vaccinazioni, il riconoscimento delle principali libertà individuali, elementi che consentono di ricondurre questo pur sfortunato esperimento Statutario alle più progredite esperienze del costituzionalismo europeo, seppur ‘abbandonata al proprio destino già a partire dal 1813, quando prendeva corpo un’alleanza con connotazioni antibaronali ed antinglesi fra corona e borghesia, che trovava un modello più rispondente ai propri interessi nella charte octroye di Luigi XVIII del ’14, concretamente gradita alla monarchia”.
Con ritmo incessante si rilancerà l’esigenza di una veste costituzionale per consacrare l’autonomia dei siciliani che consenta il recupero della Carta del 1812 nei successivi moti di Sicilia, sempre repressi dalla dinastia dei Borbone di Napoli, a partire da quelli di Palermo del 1820, quando, seppur per un fugace periodo, prevalse la soluzione della concessione della estensione della costituzione spagnola (decreto del 7 luglio 1820 ‘Art. 1. La Costituzione del Regno delle due Sicilie sarà la stessa adottata per lo Regno delle Spagne nell’anno 1812, e sanzionata da Sua Maestà Cattolica nel marzo di questo anno: salvo le modificazioni che la Rappresentanza nazionale costituzionalmente convocata crederà di proporci per adattarla alle circostanze particolari de’ reali dominî.’), sino alla revisione adattatrice definita il 9 dicembre 1820 .
Gli eventi tuttavia, com’e’ noto, precipitarono e la Rivoluzione palermitana, che era stata scintilla dell’ampio moto che scosse l’intera Europa, fu repressa con ferocia dalle truppe borboniche comandate dal tenente generale Filangieri.
La Costituzione, seppur resa più moderna e snella (‘decretata il giorno 10 luglio 1848 dal generale parlamento’), fu condannata, ancora una volta, a divenire reperto storico, strutturata sul modello della monarchia costituzionale ‘esclusiva’ (‘La Sicilia sarà sempre Stato indipendente. Il re dei Siciliani non potrà regnare o governare su verun altro paese. Ciò avvenendo sarà decaduto ipso facto. La sola accettazione di un altro principato o governo lo farà anche incorrere ipso facto nella decadenza’. Art. 2), che ebbe sorte non dissimile da quella alla quale si richiamava direttamente.
La spedizione dei mille e la proclamata unita d’Italia fecero prevalere le fagocitanti spinte unitarie piemontesi.
La questione autonomistica, ed – in particolare – la concessione di un parlamento regionale separato da quello nazionale, rimane, sebbene presente, in secondo piano: osteggiata da Cavour e Garibaldi prima (che almeno su questo convennero) trovava negli autonomisti siciliani (tra questi Filippo Cordova, Emerico Amari) la propria pur flebile spinta.
Il 3 agosto 1860, Agostino Depretis, appena nominato prodittatore della Sicilia, estende lo Statuto Albertino alla Sicilia, e ciò ancorché non si fosse ancora provveduto ad annetterla formalmente al Regno. Soltanto qualche giorno prima, il 23 giugno, era stato emanato il decreto con il quale si dava avvio alla compilazione delle liste ed alla determinazione dei collegi per la elezione di una assemblea di deputati siciliani con suffragio universale e diretto o, in alternativa, per esprimere l’adesione al plebiscito, senza tuttavia fissare la data ed il modo di espressione del voto.
A Torino, nel frattempo, il Ministro Farini, il 13 agosto 1860, pubblica la nota nella quale si definisce la proposta, a conclusione dei lavori della commissione temporanea di legislazione, di introduzione della ripartizione in regioni dello Stato unitario.
Il Prodiattatore Mordini, appena nominato, procede con la mera celebrazione del plebiscito, la cui data viene fissata per il 21 ottobre, con ciò scartando definitivamente la possibilità di elezioni del parlamento regionale; ma la prospettiva di collegare la Sicilia alle proposte di Farini non viene definitivamente scartata.
Si istituisce, così, il 19 ottobre 1860, uno “straordinario Consiglio di Stato, incaricato di studiare ed esporre al Governo quali sarebbero, nella costituzione della gran famiglia italiana, gli ordini e le istituzioni su cui convenga portare attenzione, perché rimangano conciliati i bisogni peculiari della Sicilia con quelli generali dell’unità e prosperità della Nazione Italiana”.
La Sicilia, ancora una volta, nonostante il profondo mutamento intervenuto, mostra di non voler rinunciare all’autonomia, pur di fronte alle fortissime spinte annessioniste correlate alla nascita del nuovo Stato italiano. E lo fa, questa volta, non più volgendo lo sguardo alla ‘gloriosa’ costituzione del 1812, la cui riproposizione seppur rivisitata, sarebbe stata improponibile, ma con una proposta originale frutto di un’elaborazione matura di classi dirigenti che vogliono cogliere la sfida del nuovo Stato unitario, senza perdere la rinnovata prospettiva dell’autonomia.
Anche se giova ricordare, sebbene si tratti di circostanza meramente simbolica, che il Consiglio si riunirà nei pochi giorni concessi per l’elaborazione del documento, nella stessa sede dove vide la luce la Costituzione del 1812: la biblioteca del Collegio Massimo di Palermo, oggi Biblioteca regionale.
Si tratta di uno dei primi documenti ufficiali che delineano puntualmente le basi dello Stato regionale, pur nella prospettiva di Cattaneo della figura dello stato unificato su base regionale in antitesi con lo stato nazionale unitario, in guisa da offrire lo strumentario costituzionale che costituirà il fondamento per quello che diverrà, settantacinque anni dopo, lo statuto autonomistico.
La prospettata celebrazione delle elezioni del Parlamento, insieme col plebiscito per l’annessione incondizionata all’Italia con Re costituzionale Vittorio Emanuele ed i suoi legittimi eredi, naufragò ben presto, lasciando in vita solo lo strumento plebiscitario che sanzionò l’annessione, senza garanzie di alcun tipo per le aspirazioni autonomistiche.
Purtroppo, nonostante l’intuizione di Mordini di trovare il modo di coniugare la tempestiva definizione dell’annessione incondizionata con la non abbandonata prospettiva di rilanciare la proposta autonomistica siciliana (invero poco gradita a Torino), il progetto di statuto regionale siciliano, approvato all’unanimità dai consiglieri di Stato straordinari, rimarrà lettera morta. Celebrate le elezioni del nuovo Parlamento del gennaio 1861, Minghetti, succeduto a Farini al ministero degli interni, ritiro’ i disegni di legge di riforma dell’ordinamento locale e di introduzione di quello regionale. Morto Cavour, il Barone Ricasoli, nuovo primo ministro, sopratutto in ragione della difficile situazione di ordine pubblico riscontrata nel Mezzogiorno, blocca il processo riformatore ed estende al Regno d’Italia l’ordinamento comunale e provinciale del 1859 (legge Rattazzi), sicché – come icasticamente sottolineato – “prevalsa la concezione centralista dello Stato, si rinuncio definitivamente ad ogni ipotesi di decentramento regionale, e lo statuto siciliano di autonomia, deliberato dal Consiglio straordinario di Stato, fu chiuso a doppia chiave nel cassetto dei sogni svaniti”.
Anche in questa occasione l’agognata autonomia dei siciliani non trovo’ uno Statuto ch potesse offrire, in termini puntuali e stabili, la consacrazione delle necessarie prerogative.
La Sicilia si trova così ad affrontare quella fase che Luigi Sturzo ebbe a definire ‘la depauperazione meridionale’[, la sottrazione di ingenti risorse finanziarie, economiche ed umane congiunta all’assenza dei necessari investimenti, avviando e consolidando quel divario economico ed infrastrutturale che giunge incolmato sino ai nostri giorni.