Gaetano Armao
Docente di diritto pubblico dell’economia
Università di Palermo
Nell’intervista rilasciata qualche giorno addietro il Presidente della Regione, On. Drago, individua uno dei tratti qualificanti del programma del nuovo Governo della Regione nella riforma dell’amministrazione regionale.
Quella di innovare il sistema amministrativo della Regione è una improrogabile scelta strategica che raccoglie un vastissimo consenso, anche nel corpo burocratico regionale.
Si tratta di chiedersi come operare ed in quali tempi. Per quanto concerne i tempi si conviene da più parti sulla necessità di intervenire tempestivamente, ed in questo senso non può che ribadirsi la necessità di recuperare il tempo perduto. Diverse questioni si pongono sul come riformare l’amministrazione regionale.
Da una parte si propone l’omologazione alla disciplina statale (v.l. delega n. 491/92, c.d. Amato, poi modificata dall’allora Ministro Cassese, ed adesso legge Bassanini 2), ed in questo senso sembra muoversi – non senza talune semplificazioni e generalizzazioni – la gran parte dei commentatori.
Dall’altra parte vi è chi propone – interpretando in modo consapevole l’autonomia – una riforma che, pur tenendo in debito conto le linee guida delle amministrative riforme nazionali, sia calibrata sulle peculiarità della Regione siciliana e, nel contempo vada oltre le innovazioni della normativa statale (spesso contraddittoria, parziale, disarmonica, poco attenta ai diritti dei cittadini e più a quella degli amministratori).
Una riforma – insomma – che superi l’alternativa: o restare fermi alla vecchia disciplina o “recepire” la “grande” riforma statale, in tal senso svolgendo in modo attivo quell’autonomia differenziata che a sproposito – come bene ha sottolineato Giuseppe Alessi – è oggi revocata in dubbio nel dibattito sulle riforme costituzionali.
Al tal proposito giova ricordare che lo Statuto è lo strumento e la garanzia dell’autonomia (la capacità di individuare fini e darsi regole peculiari), sicché non si tratta di tutelare la specialità dello statuto, quanto quella dell’Autonomia.
Ma torniamo alla riforma dell’amministrazione.
L. Franchetti, scrivendo nel 1876 sulle condizioni politiche ed amministrative della Sicilia, sottolineava il degrado dell’amministrazione locale e l’impotenza del Governo centrale “a conoscere e reprimere gli abusi nelle amministrazioni locali”nelle quali prevaleva l’arbitrio sul diritto, la clientela sul bene comune, “mezzi con i quali si acquista e si stabilisce l’autorità di una camarilla o di una persona”, per affermare interessi di fazione politica o, peggio, di mero vantaggio economico.
Basta rileggere alcune delle lettere inglesi di Voltaire, scritte ben centocinquanta anni prima (1734) sulle virtù del Governo inglese o le considerazioni di Tocqueville sulla democrazia americana per comprendere e rinvenire le radici storiche e culturali del travaglio dell’amministrazione in Sicilia.
Una recente ricerca dell’ISAS di Palermo delinea un quadro davvero preoccupante dell’amministrazione regionale:
– divenuta un gigante dai piedi di argilla e ormai priva di una dirigenza che (non nominalmente) sia in grado di guidarla. In particolare la dirigenza regionale, se ha perduto negli anni più recenti gran parte dei soggetti dotati di maggiore esperienza e professionalità (per le note vicende connesse al regime di quiescenza introdotto dal legislatore statale), è oggi troppo estesa nel numero ma, nel contempo, troppo carente di poteri e di gratificazioni economiche connesse all’assunzione di responsabilità; devastata da ingressi indiscriminati privi di alcuna corrispondenza rispetto alle sue reali esigenze (una Regione piena di “personale”, ma con poca “burocrazia”); un’organizzazione vecchia nell’impostazione, frammentaria nella divisione del lavoro, costruita per crescere in dimensioni e non nella qualità dei servizi resi ed ancora retta da un ordinamento anteriore alla riforma statale dell’impiego pubblico con grave nocumento per l’autonomia dell’amministrazione dalle ingerenze politiche e per la celerità delle decisioni amministrative; i vincoli finanziari, ma ancor di più alcune scelte scellerate come quella della previsione del concorso per soli titoli (con la previsione di un rilievo preponderante di titoli di anzianità), rendono impossibile un ricambio che punti sulla qualità; il fallimento del compito principale della Regione, la programmazione dello sviluppo, con il contemporaneo fiorire della micro-programmazione locale (vedasi la frammentazione dei patti territoriali) con riguardo alle quali la Regione non esercita alcuna forma di coordinamento e qui si scrive il grave disagio nel riparto di funzioni tra Regione, province regionali e comuni e tra questi e le autonomie funzionali; l’incapacità di modernizzare e razionalizzare le procedure, nonostante la l.r. 10/91 (l.r. sul procedimento amministrativo) e di diminuire i costi anche delimitando una disciplina puntigliosa ed elefantiaca di tutte le attività; l’ingerenza in economia sia nella pianificazione e regolazione, sia nella presenza sul mercato attraverso strutture paraburocratiche come le partecipazioni regionali; sul piano legislativo si riscontrano l’incapacità di legiferare nei settori di competenza (ad eccezione di leggi di spesa e di leggi provvedimento), mancanza di un completamento ed ammodernamento delle norme di attuazione dello Statuto regionale con il conseguente accrescimento del gap nei confronti delle Regioni a statuto ordinario per le quali ha almeno funzionato il c.d. “federalismo per abbandono” di consistenti competenze da parte dello Stato.
Popper ha spiegato che la questione della democrazia moderna non risiede nel chi domina, ma il governare e nel suo “come”; in altre parole il problema di maggior rilievo è che il governo non governi troppo.
Se si sofferma l’attenzione sul come vive la democrazia, allora non può prescindersi dall’amministrazione come misura della democrazia ed elemento di vantaggio competitivo per una comunità.
Si tratta quindi di “risignificare” l’amministrazione ridiscutendone dalle fondamenta la morfologia e le procedure. E, più in generale, riconsiderare il ruolo stesso della Regione, che se progressivamente ha accresciuto le proprie funzioni ed il proprio corpo burocratico – svolgendo in tal modo un ruolo accentratore – deve essere ricondotta progressivamente al ruolo programmatorio e di coordinamento degli interventi e politiche realizzati attraverso gli apparati delle amministrazioni locali e funzionali.
Sicché è ad un modello amministrazione modulare o reticolare che occorre puntare. Ciò anche al fine di diminuire l’amministrazione in favore della regolazione e far cessare la patologica “concorrenza” in atto esistente tra Regione, province regionali e comuni nell’amministrare (concorrenza, peraltro, ascrivibile al claudicante assetto delle legittimazioni, dirette per i sindaci ed i presidenti delle province, indiretta per il presidente della Regione).
Come osservano Osborne e Gabler, le imprese concepite per perseguire il profitto, mostrano maggiore attenzione ai “consumatori – cittadini” delle pubbliche amministrazioni, che sono invece strutturalmente preordinate al perseguimento dell’interesse pubblico.
Tutte le grandi democrazie occidentali hanno da tempo avviato una massiccia opera di modernizzazione delle amministrazioni pubbliche e delle loro procedure, puntando alla qualità dei servizi resi alla cittadinanza. Così è avvenuto nel Regno Unito con il programma di New public management varato dal governo Tatcher, negli Stati Uniti con le iniziative dell’amministrazione Regan e, successivamente, con il National performance review (al fine di creare “un’amministrazione che lavori meglio e costi meno”), anche la Germania ha varato un programma di riforme che mira all’alleggerimento dell’apparato amministrativo statale (e punti allo Stato leggero: Schlanker Staat).
Al fine di inverare il principio di sussidiarietà – in tal modo seguendo la nota intuizione sturziana – si deve perseguire la strada della diminuzione dei settori occupati dallo Stato in favore delle autonomie locali e funzionali (delegare il potere per ottenere risultati) (sussidiarietà in senso verticale) ed in favore degli ambiti di autonomia della società e delle sue diverse articolazioni (sussidiarietà in senso orizzontale).
Nella prima delle direzioni indicate occorre rivedere il rapporto tra amministrazione regionale ed autonomie locali e funzionali. Eliminando le sovrapposizioni, dislocando le funzioni secondo le mutate esigenze della società siciliana, razionalizzando e deverticalizzando i processi decisionali. Nella seconda delle direzioni indicate, occorre disegnare un’amministrazione regionale che costituisce opportunità per le potenzialità inespresse dell’economia siciliana e non – come per molti accade oggi – una zavorra.
Una percezione diffusa nella società italiana è che l’amministrazione regionale siciliana sia (per i vincoli connessi alla farraginosità della legislazione che per i limiti strutturali poc’anzi accennati della propria organizzazione, oltre che improprie forme di controllo esterno) un pantano nel quale, come nelle sabbie mobili, più ci si muove, più si affonda.
Occorre pertanto diminuire i vincoli alle società e gestire in modo efficiente quelli essenziali, smantellare il gigantesco apparato, trasferendo, insieme alle funzioni, risorse umane e materiali alle amministrazioni locali, eliminando l’intervento di organi collegiali nei procedimenti amministrativi che rispondevano ad una logica consociativa e risulta essere ormai superato da moderni moduli procedurali quali le conferenze dei servizi e gli accordi.
Come pure deve puntarsi ad un’amministrazione efficiente, con rendimento più elevato, che riesca a dare risposte in tempi certi (e brevi). Perché senza queste precondizioni è impossibile immaginare alcuna ipotesi di sviluppo. Ciò in quanto non solo non possono attrarsi investimenti dall’esterno, ma, parimenti viene scoraggiato l’avvio di nuove iniziative imprenditoriali.
Basti al riguardo ricordare l’esperienza del progetto di sviluppo di Galles, che com’è noto ha sovvertito in pochi anni una situazione di grave recessione, attraverso l’iniziativa del Wales Development Office. Si è infatti intervenuti sul piano della concentrazione del processo decisionale individuando un’autorità unica competente a negoziare con le imprese (britanniche ed estere) l’avvio di nuove iniziative imprenditoriali, e ciò ha favorito l’insediamento di stabilimenti di primarie imprese italiane.
Le mete per la riforma dell’amministrazione sono chiare. Occorre partire subito, guardando alle riforme avviate in Europa, ed a quelle dello Stato italiano come utili punti di riferimento (avendone ben presenti pregi e limiti), ma con l’impegno di dare alla Sicilia un’amministrazione che sia fulcro per l’innovazione.
Palermo, 4 ottobre 1998
Articolo pubblicato sul quotidiano Sicilia Oggi diretto da Marianna Bartoccelli