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L’incertezza del diritto dei contratti pubblici

di Gaetano Armao
Professore di contabilità pubblica nell’Università’ di Palermo

“Imagination au pouvoir” propugnavano i giovani parigini nel maggio del 1968. Se è vero che le ansie che animarono quella rivoluzione restano ancora oggi per molti versi inappagate, coloro che ispirandosi a J.P. Sartre coniarono quello slogan non potevano certo immaginare che si sarebbe giunti in Italia, quasi cinquant’anni dopo, all’amara constatazione della “improvisation au pouvoir”.

È questa, infatti, la sensazione destata dalle singolari vicende che hanno accompagnato la genesi del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n.50 del 2016), sin dall’elaborazione a seguito della tardiva approvazione della l. n.11 del 2016, per passare alle molteplici rettifiche pubblicate il 15 luglio scorso, seguite dalla solo parziale pubblicazione del Documento di Gara Unico Europeo (DGUE) del successivo 22 luglio, ed, infine, dal comunicato stampa di rettifica (questa volta diretta a terzi) del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti inviato a “Lavori Pubblici” il 28 luglio scorso.

Il laconico comunicato ha precisato che la parziale pubblicazione del DGUE sia ascrivibile ad “un errore del programma informatico della stessa GU”, e su tale poco verosimile ricostruzione si potrebbe pure convenire.

Ma il “tenore paradossale” esplicita la giustificazione secondo la quale le rettifiche al nuovo Codice dei contratti pubblici, costituiscano “un atto previsto già in fase di redazione, stanti i tempi ristretti per il rispetto della Direttiva e la necessità di evitare le ben peggiori conseguenze della pubblicazione fuori tempo massimo”.

Insomma, il legislatore delegato (peraltro adiuvato da dirigenti statali, tecnici e dall’ANAC) avrebbe previsto che già alla pubblicazione del decreto sarebbero seguiti, tre mesi dopo, oltre 170 rettifiche che hanno riguardato quasi 100 dei 220 articoli del codice.

In altre parole, non paghi della frammentaria implementazione delle direttive UE nn. 23, 24 e 25 del 2014 in materia di appalti pubblici e concessioni, al Ministero delle infrastrutture e trasporti (scomparsa dal dibattito la Presidenza del Consiglio), si teorizza che gli atti normativi complessi, in termini quasi inevitabili, siano afflitti da vizi genetici che impongono la necessità di adottar modifiche ed integrazioni appena dopo la loro pubblicazione.

L’argomento prova troppo.

Il valore ineludibile della “certezza del diritto”, anche nelle più recenti prospettazioni dei teorici generali del diritto, come J. Habermas, R. Alexy, A. Aarnio, postula che l’applicazione della norma avvenga in modo non arbitrario e che la decisione del caso non sia fondata esclusivamente sulle valutazioni personali dell’interprete, ma, almeno in parte, sul diritto vigente.

Frammentarie e sottoposte a continue modifiche, come in questo caso, le riforme divengono incerte.

Sorte non diversa ha avuto la stessa revisione costituzionale (basti tra tutti richiamare il ‘refuso’ che sopprimeva l’autonomia speciale delle Regioni, poi rettificato a seguito delle proteste di alcuni presidenti delle Regioni), ed il cui testo non è privo di clausole vaghe ed inesattezze, così come rilevato da più di dieci ex presidenti della Corte costituzionale.

Ebbene cosa ci si può attendere nell’approccio alla legislazione ordinaria se con analoga approssimazione si è inteso procedere alla riforma della Carta fondamentale?

Non si tratta, per qual che ci occupa, di ricondurre la prorompente normazione applicativa del diritto europeo in materia di appalti alle astratte architetture della postpandettistica, ma semplicemente di offrire ai cittadini, alle imprese, alle amministrazioni regole chiare e scongiurare che dalla “farragine legislativa” scaturiscano incertezze interpretative, mutamenti in corso d’opera che rallentano la pubblicazione dei bandi e favoriscono l’insorgere di contenziosi.

I dati forniti dalla stessa ANAC (v. Lavori Pubblici del 22.7.2016) sulla drastica diminuzione, per numero ed importi, delle procedure ad evidenza pubblica costituiscono l’inconfutabile quanto drammatica prova, con effetti non solo sul PIL, ma anche sulla tempestiva utilizzazione delle risorse europee, già in pesante ritardo.

Ciò che afferma il comunicato, purtroppo, corrisponde al vero.

Ed infatti, lo stesso direttore del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri (DAGL), che ha coordinato il gruppo di lavoro e materialmente provveduto alla stesura del testo di quello che è poi divenuto il d.lgs. n. 50, già in occasione della presentazione all’ANCE a Roma, il 18 maggio scorso, aveva annunciato – nello stupore generale – che di lì a poco si sarebbe intervenuti con alcune rettifiche sul testo pubblicato.

Ma certo nessuno, meno che meno coloro che si sono spinti a stendere i primi perplessi commenti al codice – come chi scrive – si attendevano un così elevato numero di inserzioni ed un livello di incertezza che non ha precedenti.

E dire che, come precisato dal regolamento UE n.7/2016 proprio sul DGUE, uno dei principali obiettivi delle direttive del 2014 in materia di appalti fosse proprio quello di “ridurre gli oneri amministrativi che gravano sulle amministrazioni aggiudicatrici, sugli enti aggiudicatori e sugli operatori economici, non da ultimo le piccole e medie imprese”.

Obiettivo che, sacrificando la chiarezza e coerenza della normazione, sembra vanificarsi con l’implementazione accordata dal(la improvvisazione del) legislatore delegato.

Pubblicato nel sito www.laboripubblici.it 

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