di Gaetano Armao
docente di contabilità pubblica DEMS/Universitá di Palermo
Il 28′ Rapporto Sud DISTE/Fondazione CURELLA”Fuori dalla Recessione il Nord! Ma il sud arranca”(presentato a Palermo 31 marzo 2015) evidenzia un alleggerimento della crisi ed un recupero molto modesto del PIL, in gran parte ascrivibile a fattori esogeni (calo del prezzo del pe-trolio, deprezzamento dell’euro, varo del Q.E. da parte della BCE, maggioreflessibilità dei vincoli di bilancio), ma il Sud rimane inchiodato alla crisi.
Anche se non manca chi ritiene- come Confcommercio – che il rimbalzo del 2015 sia di na-tura statisti-ca(http://www.confcommercio.it/documents/10180/4996877/ECONOMIE+TERRITORIALI/a702c5cd-3a42-4371-82c8-c4dc2eca7ada).
Ebbene contro gli esiti delle analisi delle principali istituzioni della ricerca economica il re-sponsabile delle politiche per lo sviluppo e la coesione economica del governo nazionale afferma:”il 2015 sarà l’anno del Sud, che crescerà in percentuale più del Nord in termini di PIL’ (il sottosegre-tario Del Riol’8 marzo scorso).
Il Rapporto evidenzia, invece, il crescente divario tra andamento del PIL del centro-nord e sud-isole sottolineando come quest’ultimo sia ancora intrappolato è “nella recessione…il PIL del Mezzogiorno è previsto infatti diminuire dello 0,4% e quello dell’altra ripartizione aumentare dello 0,7%”.Il PIL dell’area meridionale e insulare ha registrato nel 2014 una flessione dell’1,3%, spro-fondando a – 14,5% rispetto al 2007. Se immaginiamo una crescita del Pil regionale costante all’1% – ma sono previsioni ottimistiche – dovremo attendere sino al 2030 per ritornare ai livelli pre-crisi, il Nord ci riuscirà dieci anni prima.
Non resta checonstatare quindi, se correliamo la situazione economica con la desertifica-zione industriale ed universitaria e le tendenze demografiche (invecchiamento, spopolamento, de-flusso di capitale umano), l’encefalogramma piatto del Mezzogiorno, un’area con 20 milioni di per-sone condannate al sottosviluppo.
Il Pil procapite del Sud era pari al 57% di quello del Nord-Ovest nel 2007, nel 2015 sarà sotto il 55%, se Pino Daniele si sentiva un nero a metà, ma era un valore aggiunto per la sua musica, i meridionali sono ormai stabilmente italiani a metà (per PIL, dotazione infrastrutturale, qualità dei servizi pubblici etc.), salvi gli stessi oneri fiscali.
Secondo lestime della Banca d’Italia nel periodo 2000-2008 i flussi redistributivi reali medi verso il Mezzogiorno sono stati di circa 56 md€ all’anno (3,9% del PIL), nel biennio 2009-2010 sono saliti a oltre 60 md€ (4,4% del PIL), per poi ridursi sensibilmente, fino a circa 44 md€dal 2012 (3,2% del PIL) (Banca d’Italia, Economie regionali. L’economia delle regioni italiane. Dinamiche recenti e aspetti strutturali, Roma, 2014, 51) e scendono ancora negli ultimi due anni come dimostra la SVIMEZ (Rapporto 2014 sull’economia del Mezzogiorno, http://www.svimez.info/images/RAPPORTO/materiali2014/2014_10_28_linee.pdf).
Mentre con riguardo ai fondi europei, lo ricordava G. Viesti “i ritardi nella spesa non sono colpa delle regioni del sud”(Giornale di Sicilia 10 marzo 2015), l’inerzia nell’impiego dei fondi è in gran parte ascrivibile alla complessità dei progetti, alla farraginosità delle procedure, alla maggiore incidenza percentuale delle infrastrutture sui fondi assegnati. Tant’è che sugli interventi che non rientrano nei lavori pubblici (e cioè acquisti di beni e servizi, contributi e incentivi alle imprese) “a fine 2013 la velocità della spesa è uguale in tutto il Paese”.
Tuttavia soltanto la coesione può assicurare la crescita e rendere competitivo il Paese. 6600 chilometri di strade e 715 di autostrade, in vent’anni la Germania ha riversato nei lander dell’Est risorse enormi, ed oggi quel Paese coeso e’ la locomotiva economica e politica del Continente, mentre l’Italia repubblicana ha concesso al Sud interventi al confronto modesti.
I. Salesqualche giorno fa (adesso in http://www.zoomsud.it/index.php/politica/79162-teorema-mezzogiorno-se-l-italia-divorzia-dal-sud.html) ha affermato che il Sud è estraneo alla Na-zione.
Di fronte alle affermazioni di P. C. Padoansulla situazione meridionale, secondo il quale: “il tema va riaperto, senza però politiche specifiche, solo con politiche generali ma senza risorse aggiuntive”, occorre chiedersi “come si fa in economia a riaprire una questione senza politiche spe-cifiche e senza risorse aggiuntive?” E’ in corso una progressiva ritirata dello Stato dall’impegno di garantire la coesione economico-sociale. E per mascherare questa ritirata è stato necessario convin-cere i meridionali che se lo meritano, con numeri che raccolgono un sentimento, una visione, un’idea di Nazione (I. Sales, Napoli non è Berlino, Baldini Castoldi Dalai, 2012).
Il Sud ha così smesso di essere una “questione” ed è stato rimosso dall’agenda politica. Non ve ne è traccia nelle ultime dichiarazioni programmatiche del Governo statale, nelle deleghe ministeriali, nelle misure di politica economica, scomparso dal dibattito sulla riforma costituzionale, ridotto ai minimi termini negli investimenti infrastrutturali.
E la Sicilia ? Qui la vicenda assume connotati paradossali.
Di fronte alla grave crisi, ai crescenti vincoli finanziari, al crollo degli investimenti, all’esi-genza di una seria revisione della spesa c’era una sola strada da intraprendere: riforme strutturali e conclusione del negoziato finanziario con lo Stato.Quel negoziato, già definito nel 2012 econcluso dalle altre regioni speciali, che langue per inerzia regionale.
Sul primo versante l’emblema del fallimento di questa legislatura è la paralisi nella quale sono crollate le amministrazioni intermedie, dopo la (solo) declamata soppressione delle Province regionali. E’ mancata l’azione riformatrice ed il deciso risanamento che avrebbero evitato il disastro finanziario già ampiamente prevedibiletre anni fa. A questo si aggiungono i 4 md€ di potenziali en-trate derivanti da contenziosi costituzionali vittoriosi ai quali il governo regionale ha rinunciato per soli 500 mn€ di spazi finanziari.
Si ricorre adesso a circa due miliardi di nuovo indebitamento. (l.r. 4/2015), che appesanti-ràla finanza regionale per decenni,per garantire spesa corrente e ed entrate dubbie (in “pre-contenzioso”inserite nella l.r. 3/2015) che andavano negoziate con lo Stato. Nonostante tutto man-cherebbero ancora tre miliardi per far quadrare il bilancio 2015.
Le difficoltà finanziarie della Sicilia vengono da lontano ed hanno determinato, già dal 2010,iniziative di contenimento della spesa, che tuttavia dal 2013, con il sostanziale mutamento del-le regole di finanza pubblica, avrebbero imposto – anche a causa delle restrizioni progressivamente sancite dallo Stato – l’adozione di una seria politica di riforme strutturali e di revisione della spesa che sono mancate.
Alla Sicilia, solo nell’ultimo anno, sono stati sottratti circa 9 md€ tra risorse del Piano di azione e coesione (PAC) e del Fondo di sviluppo e coesione (FSC), stornate dallo Stato (1,2 md€ con legge di stabilità 2015 o come quelle destinate al cofinanziamento dei fondi della programma-zione UE, passato dal 50 al 25% in Sicilia, ma non in Puglia)o addirittura restituite dalla Regione (1,1 md art. 3 l.r. n.3/2015). Si tratta di fonti finanziarie comunque sottratte agli investimenti e che riducono la competitività dell’Isola.
Non c’è più tempo. Per salvare la Sicilia daldefaultoccorronoriforme strutturali, rilancio degli investimenti, fiscalità di sviluppo connessa all’insularità, ma sopratutto classi dirigenti com-petenti e credibili.