Come giuristi e docenti di diritto pubblico siamo mossi, nella valutazione della deliberazione costituzionale approvata con ultima votazione a maggioranza assoluta dalla Camera dei Deputati il 12 aprile 2016 ed ora sottoposta a referendum confermativo, da motivazioni non politiche, ma di ordine squisitamente costituzionale legate alla funzionalità del sistema ed alla permanente validità dello spirito della Costituzione del 1948.
In questa prospettiva, il primo elemento di preoccupazione è costituito dal clima di scontro, che in qualche momento rasenta la rissa politica, che si deve registrare in ordine alla votazione referendaria impropriamente caricata dal Presidente del Consiglio di valore determinante per la sua permanenza in carica ed, addirittura, per il suo destino politico. Così facendo si degrada, infatti, la Costituzione ad una qualsiasi legge ordinaria che persegue obbiettivi contingenti voluti dalla maggioranza politica in atto mentre è la norma che pone le basi della convivenza comunitaria di tutta la società politica o, quanto meno, della parte largamente maggioritaria di essa.
Troppo poche le modifiche condivisibili (soppressione del CNEL, rafforzamento degli strumenti di democrazia diretta) rispetto alle tante, troppe scelte confusionarie di modifica della Costituzione con l’obiettivo di assecondare spinte accentratrici che non trovano eguali in Europa e che, se correlate al modello elettorale prescelto dal c.d. “italicum”, introducono forti elementi di disequilibrio nella democrazia italiana.
Nel merito della riforma, invece, il primo motivo di perplessità è determinato dalla confusione ed incoerenza con cui è stato immaginato il superamento del bicameralismo c.d. perfetto e l’attribuzione alla sola Camera dei Deputati del compito di mantenere il rapporto fiduciario con il Governo.
Al posto di dar vita ad una seconda Camera che sia reale espressione dei territori, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero confronto ed incontro fra rappresentanza politica e rappresentanza territoriale, si è configurato un Senato con competenze confuse, estremamente debole privo dell’adeguata rappresentanza delle istituzioni regionali (si pensi, ad esempio, alla paradossale disparità dei senatori che rappresenteranno la Sicilia ed il Trentino Alto Adige) e, soprattutto, delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo. Circostanza, quest’ultima, ulteriormente rafforzata dalla pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di partecipazione del nuovo Senato e quindi dell’aumentata possibilità di incertezze e conflitti.
Altro motivo non solo di perplessità ma anche di vera e propria contrarietà è costituito dall’assetto regionale della Repubblica che uscirebbe da questa riforma fortemente ridimensionato sia sul piano della definizione dei confini delle competenze legislative che della sfera dell’autonomismo. Basti pensare all’attribuzione allo Stato di numerose materie di competenza esclusiva – alcune delle quali abilitate a dettare “disposizioni generali e comuni”, a definire “interessi nazionali e sovranazionali”, a stabilire “linee di programmazione strategica”- o all’introduzione in suo favore della clausola di supremazia o, ancora, all’abolizione delle materie di competenza concorrente. Tutte situazioni i cui effetti si sostanziano nell’abbattimento delle garanzie costituzionali della potestà legislativa delle Regioni e quindi conseguentemente della loro trasformazione in enti di amministrazione.
Insomma, invece di correggere gli errori della riforma del 2001, promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto costituzionale ne rovescia l’impostazione ed assume obbiettivi opposti a quelli del rafforzamento del sistema delle autonomie.
Inoltre, ridurre il numero dei senatori a meno di un sesto di quello della Camera, sopprimere le Province, configurare le Città metropolitane come enti di secondo grado anziché riconsiderare e riperimetrare i territori di tutti gli enti che formano la Repubblica: non sono modi per garantire la validità e la ricchezza del tessuto democratico del Paese ma sembrano, come peraltro dimostra anche il richiamo al contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni nel titolo della legge, delle forme di accarezzamento della tanta odiata antipolitica.
Infine, la totale assenza di visione strategica sul Mezzogiorno e le Isole. Nella fase nella quale il divario Nord–Sud si aggrava ed allarga riguardando non solo il piano economico, ma con più preoccupanti effetti, anche quello sociale, culturale, dell’istruzione, la revisione costituzionale fa scendere sul Mezzogiorno il più fragoroso silenzio!
Naturalmente, queste e le altre ragioni che inducono complessivamente a votare “no” al referendum (senza volere disconoscere che nella deliberazione costituzionale vi siano anche singole previsioni normative che meritano di essere guardate con favore) non significano un “si” al mantenimento di un ordinamento istituzionale, per alcuni versi, ormai inadeguato ed inefficiente.
Vogliono, al contrario, indurre a riformare veramente la Costituzione nella sua parte organizzativa. Ma attraverso il procedimento più proprio: quello di una Assemblea Costituente formata da 100 componenti eletti con sistema proporzionale che, dall’inizio della prossime legislatura, affianchi per un anno Camera e Senato e poi, licenziata la riforma, decada.
In questo modo, allora non c’è dubbio che il voto per il “no” alla deliberazione costituzionale acquisterebbe il significato di un pronunciamento fortemente riformista per nulla legato alla riproposizione del modello di governance del passato e l’argomento avanzato da molti dei sostenitori del “si” (e, cioè, che comunque la legge costituzionale da confermare è un segnale di cambiamento) non solo si svuoterebbe di significato ma ne acquisterebbe uno negativo perché alla fine significherebbe optare per una scelta approssimativa e superficiale quando entro un ragionevole lasso di tempo si potrebbe avere una riforma ben fatta e, comunque, condivisa da una larga maggioranza dei cittadini.
Non come questa, che inevitabilmente spaccherà in due il corpo elettorale.
A cura di Gaetano Armao e Andrea Piraino
Università di Palermo