di Gaetano Armao
Docente di diritto regionale e contabilità pubblica – Università di Palermo
Vicepresidente della Regione designato della coalizione di centro-destra alle elezioni siciliane 2017
I referendum sull’autonomia che si tengono oggi in Lombardia e Veneto costituiscono l’occasione per far ripartire il federalismo nel Paese.
Le spinte centraliste del centro-sinistra, unite a quelle imposte dalle politiche dell’austerità di matrice europea, sembravano prevalere sino alla sconfitta del referendum sulla revisione costituzionale del 4 dicembre scorso.
Anche se, come se nulla fosse, il campione siciliano del renzismo perdente, l’on. Faraone, propone la formula meno Stato al nord, più Stato al Sud, espressione di una minorità culturale ed antropologica, oltre che politica dei siciliani.
La Sicilia ha subíto questa tendenza al ri-accentramento anche a causa delle rinunce del governo regionale uscente che hanno svilito l’autonomia riconosciuta dallo Statuto, in particolare di quella finanziaria, ma può adesso trarre vantaggio dal dei referendum delle due Regioni del nord.
La necessaria disdetta dei dannosi accordi conclusi dal Governo Crocetta-Baccei (quest’ultimo espressione toscana dello stesso Faraone) – ai quali é seguita la rinuncia a decine di contenziosi costituzionali favorevoli e ad un gettito pluriennale di almeno 5 md€ – e la riapertura di un nuovo negoziato con lo Stato troveranno, infatti, un nuovo vigore dall’esito favorevole della consultazione.
Solo il rafforzamento dell’autonomia finanziaria regionale può infatti consentire l’avvio di politiche di sviluppo incentrate su fiscalità di sviluppo e condizione di insularità che costituiscono il nucleo del programma economico del centro-destra.
L’intera Europa é percorsa da un vento che spinge a valorizzare i territori e riallocare i poteri degli Stati centrali. Scozia, Paesi Baschi, Catalogna, Corsica sono solo alcuni degli esempi che dimostrano la crescente spinta verso l’autogoverno responsabile che scuote l’incancrenita Europa dei Governi centrali e della finanza.
E’ la strada per il rilancio dell’Europa delle Regioni e dei loro popoli e territori.
I referendum consultivi mirano ad accompagnare, con una forte istanza politica (l’Emilia-Romagna ha invece attivato direttamente il negoziato senza consultazione popolare) il decentramento di funzioni ed ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia secondo le previsioni dell’art. 116, terzo comma Cost. e delle relative risorse finanziarie.
È evidente che l’esito dei referendum, se consentirà loro di raggiungere l’intesa con lo Stato, da sancire poi con legge approvata dalle Camere, non le trasformerà in Regioni speciali come la Sicilia la quale, per non restare schiacciata da questo processo, deve immediatamente riaffermare la sua posizione nello scenario istituzionale.
Una delle questioni politiche poste in un Paese che la crisi economica, le politiche di austerità e le inique scelte degli ultimi governi (solo parzialmente invertite dall’esecutivo Gentiloni) hanno ancor più diviso riguarda il c.d. residuo fiscale.
Questo é costituito, secondo gli studi di J. M. Buchanan sul federalismo americano (Federalism and Fiscal Equity, 1950), dal differenziale che il contribuente fornisce al finanziamento della p.a. ed i benefici che ne riceve sotto forma di servizi pubblici, in modo da misurare l’azione redistributiva dell’amministrazione pubblica.
In altre parole, si tratta della differenza tra le entrate (fiscali e di altra natura) che le amministrazioni realizzano in un territorio regionale e le risorse spese in quel territorio e riflette la redistribuzione di risorse tra aree del Paese con redditi diversi.
Lombardia e Veneto evidenziano un residuo fiscale in loro favore (rispettivamente di 56 e 17 md€) reclamando l’utilizzo in favore dei loro territori di risorse che invece verrebbero drenate dalla fiscalità nazionale ed in particolare del Mezzogiorno.
È un ragionamento che impone di introdurre subito degli elementi di equilibrio che passano per il principio di eguaglianza, la garanzia della perequazione territoriale, ma anche della coesione economico-sociale e della solidale compensazione del divario di un Paese che, dopo oltre 150 anni, é rimasto sostanzialmente invariato.
Peraltro, questi dati debbono essere riconsiderati ricordando che molte grandi aziende nazionali (si pensi ai settori, petrolifero, energetico, bancario e finanziario, assicurativo, a quello della grande distribuzione, dell’automotive etc.) sono soggetti fiscali per quelle Regioni in quanto vi hanno sede, mentre svolgono rilevanti segmenti di attività economica, traendone utili, in altre parti del Paese.
Se dai residui fiscali emerge la redistribuzione tra contribuenti con redditi in media più elevati al Nord, la spesa pubblica è distribuita in modo uniforme tra residenti aventi gli stessi diritti di cittadinanza e la Sicilia registra, rispetto al 2000, una contrazione della spesa per investimenti superiore a quella media del Mezzogiorno, superando il 56%ed il sostanziale azzeramento degli investimenti ex art. 38 (dati Conti pubblici territoriali 2017).
I siciliani trovano la propria garanzia finanziaria nell’art. 37 dello Statuto, sebbene svilito nell’ultima legislatura dai ricordati accordi finanziari conclusi dal governo uscente.
Le nuove norme di attuazione statutaria (d.lgs. 251/2016) hanno finalmente riconosciuto il luogo di riscossione come criterio di spettanza del gettito dei tributi, ma le quantificazioni forfettarie concordate sono riduttive e non garantiscono l’attuazione del principio.
Secondo l’art.37, infatti, le imprese non residenti in Sicilia, ma che vi svolgono la propria attività in propri “stabilimenti ed impianti”, debbono contribuire al bilancio regionale mediante “la quota del reddito da attribuire agli stabilimenti ed impianti medesimi”, prescrivendo che “l’imposta, relativa a detta quota, compete alla Regione ed è riscossa dagli organi di riscossione della medesima”.
Ebbene, applicando sul serio questa norma i residui fiscali lordi di Lombardia e Veneto devono essere ridotti dei tributi che invece spettano alla Sicilia.
Che dire poi delle accise (in Sicilia vengono raffinati oltre il 40% dei prodotti petroliferi del Paese) incassate dallo Stato e che incrementerebbero del 50% le entrate regionali, mentre qui restano gli effetti dell’inquinamento e gli oneri di risanamento ambientale?
La riapertura del dibattito sul federalismo imposta dai referendum regionali costituisce un’opportunità e non un pregiudizio per la Sicilia che rilanciando le proprie prerogative con autorevolezza, con “carte e conti in regola”, potrà sedersi al tavolo di un negoziato fondamentale per recuperare autonomia finanziaria ed attivare sviluppo e crescita.