di
Gaetano Armao
Universita di Palermo – Dipartimento DEMS
1. In materia deve ricordarsi che, a norma dell’art. 2, primo comma, lett. d) della l. 20 luglio 2004, n. 215 e s.m.i., il titolare di cariche di governo non può «esercitare attività professionali o di lavoro autonomo in materie connesse con la carica di governo di qualunque natura, anche se gratuite, a favore di soggetti pubblici o privati; in ragione di tali attività il titolare di cariche di governo può percepire unicamente i proventi per le prestazioni svolte prima dell’assunzione della carica; inoltre, non può ricoprire cariche o uffici, o svolgere altre funzioni comunque denominate, ne’ compiere atti di gestione in associazioni o società tra professionisti», mentre al quarto comma della stessa norma si precisa che «l’incompatibilità prevista dalla disposizione di cui alla lettera d) del comma 1 costituisce causa di impedimento temporaneo all’esercizio della professione e come tale è soggetta alla disciplina dettata dall’ordinamento professionale di appartenenza».
Giova precisare che, a norma della citata disposizione, al fine di scongiurare la commistione tra il perseguimento degli interessi pubblici ed i pur legittimi interessi privati, il legislatore ha inteso introdurre meccanismi di trasparenza e di incompatibilità in guisa da garantire la posizione di imparzialità dei soggetti che rivestono cariche di governo.
Piu’ specificatamente, le attività professionali o di lavoro autonomo sono incompatibili se effettivamente esercitate e qualora presentino profili di connessione con la carica di governo ricoperta. In relazione al primo elemento, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato – alla quale la normativa in esame attribuisce pregnanti competenze di vigilanza – in conformità ai numerosi precedenti in materia, ha ritenuto necessario l’effettivo esercizio dell’attività professionale e non sufficiente, invece, la mera iscrizione ad un albo, mentre per le associazioni professionali, posto che la relativa partecipazione non implica necessariamente l’esercizio di attività incompatibili, il titolare di carica di governo può mantenere il suo nome in seno allo studio, astenendosi, in concreto, dall’esercizio dell’attività .
In tal senso l’articolo 3, lettera c), del Regolamento , precisa come, ai fini del requisito della connessione, debba ritenersi rilevante qualsiasi inerenza, diretta o indiretta, esistente tra l’attività esercitata e gli interessi pubblici tutelati dalle funzioni di governo attribuite al titolare.
2. Oltre a prevedere un preciso regime di incompatibilità, la normativa in argomento, disciplina, all’articolo 2, comma 4, l’istituto dell’incompatibilità post carica.
La norma summentovata prevede che la incompatibilità nei confronti di enti pubblici, e società o enti svolgenti attività imprenditoriale o dallo svolgimento di attività professionale “perdura per dodici mesi dal termine della carica di governo nei confronti di enti di diritto pubblico, anche economici, nonché di società aventi fini di lucro che operino prevalentemente in settori connessi con la carica ricoperta”.
Giusta le previsioni dell’art. 2, comma 4 della normativa in questione, le incompatibilità previste dalle lettere b), c) e d), del comma 1, dello stesso articolo , vengono estese ai dodici mesi successivi alla cessazione dalla carica di governo, “nei confronti di enti di diritto pubblico, anche economici, nonché di società aventi fini di lucro che operino prevalentemente in settori connessi con la carica ricoperta”. Appare di tutta evidenza che la disposizione sia essenzialmente volta a scongiurare che l’attività di governo possa essere influenzata dall’interesse personale o patrimoniale del titolare di carica volto a procurarsi benefici futuri (a conclusione del mandato) attraverso l’accaparramento di nuovi incarichi professionali.
Come sottolineato in dottrina perché il conflitto sia sanzionabile “non è sufficiente che esso venga accertato, ma si richiede che esso danneggi l’interesse pubblico”, condizione che, in quanto riferita ad un parametro vago e generico, è stato ritenuto limitare notevolmente l’applicazione della disciplina sanzionatoria
La disposizione, che è finalizzata ad evitare che il titolare di carica si possa precostituire benefici futuri, invero, non è chiara nel delimitare l’esatta estensione delle incompatibilità successivamente alla cessazione della carica di Governo.
Il divieto di ricoprire cariche e uffici o svolgere funzioni comunque denominate ovvero esercitare compiti di gestione in società aventi fine di lucro o in attività imprenditoriali, risulta, nella fase successiva alla carica, certamente circoscritto ai soli casi in cui sussistano la connessione e la prevalenza dell’attività della società nei settori in cui il titolare ha svolto la funzione.
L’incertezza interpretativa sulla portata effettiva dell’estensione annuale a seguito della cessazione della carica è stata espressa, peraltro, dalla stessa AGCM che, in una delle ultime relazioni in materia, ha precisato che “sarebbe auspicabile un chiarimento normativo anche per coordinare l’istituto con l’esistenza di un regime di incompatibilità post-carica che esclude per alcune tipologie di cariche la possibilità di riassunzione immediata, consentendola solo decorsi dodici mesi dalla cessazione della carica” evidenziando, altresì, che”problematiche non di minore rilevanza sorgono poi relativamente alle incompatibilità post carica previste Quanto invece alle cariche negli enti pubblici, di cui alla lettera b), non è chiaro se esse siano vietate tout court nei successivi dodici mesi (senza alcun ridimensionamento quindi rispetto alla incompatibilità già prevista per i titolari in costanza di carica), ovvero se anch’esse siano vietate solo in presenza di una connessione e prevalenza dell’attività dell’ente nei settori in cui il titolare ha svolto la funzione. Sarebbe, quindi, quanto mai opportuno un intervento del legislatore che specifichi se il requisito della connessione e della prevalenza vada riferito o meno anche agli enti pubblici”.
3. Ai fini dell’esatta ricostruzione dell’ambito soggettivo di applicazione sembra utile ricordare che la richiamata legge individua (art. 1) i destinatari della disciplina nei “titolari di cariche di Governo”, precisando, testualmente, che in tale ambito sono ricompresi, testualmente, il Presidente del Consiglio ed i ministri, i vice ministri, i sottosegretari di Stato e i commissari straordinari del Governo. A tali soggetti la legge impone di dedicarsi esclusivamente alla cura degli interessi pubblici e di astenersi dal compimento di atti – inclusa la partecipazione a deliberazioni collegiali – “in situazione di conflitto di interessi”..
La definizione di conflitto di interessi, ai fini dell’individuazione degli atti dai quali è obbligatorio astenersi, è poi offerta dal successivo art. 3.
Anche se, in termini generali, occorre ricordare che al fine di individuare con precisione l’ambito soggettivo di applicazione può affermarsi, secondo quanto affermato dalla stessa Autorità garante della concorrenza e del mercato, che in tale ambito rientrano gli organi di governo delle Regioni a statuto ordinario. Conseguentemente, nella platea dei soggetti sottoposti alla disciplina sul conflitto d’interessi vanno ricompresi anche gli amministratori regionali, che, quindi, vi rimangono integralmente assoggettati
Per quanto concerne invece le Autonomie differenziate occorre ricordare che a norma dell’art. 1, terzo comma, della legge in esame: “le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano adottano disposizioni idonee ad assicurare il rispetto del principio di cui al comma 1“.
Non risulta, tuttavia, che la Regione siciliana sia intervenuta legislativamente in merito, anche al fine di introdurre nell’ordinamento regionale un mero recepimento della richiamata normativa.
Peraltro, lo Statuto, nella versione modificata dalla l. cost. 31 gennaio 2001, n. 2, all’art. 9, terzo comma, ha previsto all’uopo l’emanazione di una ‘legge statutaria’ (ossia con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti dell’ARS) che, in armonia con la Costituzione ed i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e con l’osservanza di quanto stabilito dallo Statuto, stabilisca “le modalità di elezione del Presidente della Regione, di nomina e di revoca degli Assessori, l’eventuali incompatibilità con l’ufficio di deputato regionale e con la titolarità di altre cariche o uffici, nonché i rapporti tra l’Assemblea regionale, il Governo regionale e il Presidente della Regione”.
Legge statutaria che invero, a differenza di altre Regioni, sia speciali che ordinarie , non è stata mai approvata dalla Regione siciliana.
Sicché, dovrebbe ritenersi che la richiamata normativa statale non possa trovare univoca applicazione in Sicilia. Conseguentemente, in assenza di una univoca applicabilità della norma dovrebbe quindi propendersi per l’assoggettamento del professionista cessato dalla carica governativa, ai pur pregnanti limiti scaturenti dal proprio regime deontologico
Con riguardo al regime delle incompatibilità dell’esponente amministrativo, ad esempio, pur in assenza di una disciplina speciale tipizzata, tuttavia, la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto la vigenza di un complesso di norme ricavabili da altri settori dell’ordinamento, le quali, comunque, contribuirebbero ad inverare l’attuazione del principio costituzionale d’imparzialità di cui all’art. 97 e che, quindi, sarebbero applicabili anche nella valutazione dell’attività della Pubblica Amministrazione.
Tra queste un ruolo centrale gioca la previsione sancita dall’art. 51, primo comma, del codice di procedura civile , la cui applicabilità ai componenti delle commissioni giudicatrici appare pacifica in giurisprudenza . Disposizione che, comunque, non è accompagnata da alcuna previsione di ultrattività del l’incompatibilità oltre la cessazione del mandato.
Sul piano testuale l’unica norma regionale che regola puntualmente la fattispecie appare quella cui cui all’art.3 primo comma lett. a) della l.r. 28 marzo 1995, n. 22 e succ. mod. ed int. che, fatte salve le incompatibilità previste da leggi speciali, statali o regionali, sancisce che non possono ricoprire incarichi a qualsiasi negli organi di amministrazione attiva, consultiva e di controllo della Regione, nonché degli enti pubblici da essa dipendenti o comunque sottoposti a tutela, controllo o vigilanza, e delle persone giuridiche a prevalente partecipazione pubblica, alla nomina dei cui organi concorrono la Regione o altri dei suddetti enti pubblici:“i membri del Parlamento nazionale ed europeo, della Giunta e dell’Assemblea regionale siciliana” .
Si tratta quindi, dell’unica prescrizione normativa prevista dall’ordinamento regionale e che non è accompagnata da alcuna previsione di ultrattività rispetto al periodo di espletamento del mandato di componente del governo regionale.
Una interpretazione rigorosa del quadro delineato dovrebbe indurre a ritenere applicabili anche nella Regione il quadro dei vincoli posti a tutela della imparzialità dell’azione amministrativa.
4. Sin qui le considerazioni su singole fattispecie. Resta comunque impregiudicata l’esigenza di assicurare il rispetto della distinzione tra politica ed amministrazione che non può ritenersi rispettato con continui passaggi dall’uno all’altro livello.
Sono infatti molteplici i casi di dirigenti generali divenuti assessori e poi tornati ai loro posti o peggio ancora di assessori che al termine della loro attività hanno svolto attività professionali per l’amministrazione, determinando l’insorgere di situazione di commistione tra politica ed amministrazione.
In merito, va ricordato che, come confermato da una recente sentenza della Corte costituzionale (n. 108/2015, dep. il 9.6.), “la separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa costituisce, secondo il costante orientamento di questa Corte, «un principio di carattere generale, che trova il suo fondamento nell’art. 97 Cost. L’individuazione dell’esatta linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell’organo politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa, però, spetta al legislatore. A sua volta, tale potere incontra un limite nello stesso art. 97 Cost.: nell’identificare gli atti di indirizzo politico amministrativo e quelli a carattere gestionale, il legislatore non può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio di separazione tra politica e amministrazione, ledano l’imparzialità della pubblica amministrazione» (ex plurimis, sentenza n. 81 del 2013).”.
In questo alveo si inserisce la normativa regionale (l.r. n. 10 del 2000 e s.m.i.) che, all’art. 2, rubricato “indirizzo politico-amministrativo. Funzioni e responsabilità”, prevede al primo comma che “il Presidente della Regione e gli Assessori esercitano le funzioni di indirizzo politico- amministrativo, definiscono gli obiettivi ed i programmi da attuare, adottano gli atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, verificano la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti”. Mentre al secondo e terzo comma stabilisce che “ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, compresi quelli che impegnano l’Amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati” e che “le attribuzioni dei dirigenti indicate al comma 2 possono essere derogate soltanto da specifiche disposizioni legislative”.
In tal senso, l’assenza di una disciplina regionale puntuale sul conflitto d’interessi – che dovrebbe superarsi in sede interpretativa secondo i richiamati orientamenti – viene travolta dalla diretta applicabilità della normativa anticorruzione, pacificamente riconosciuta .
In particolare quella del d.lgs. n. 39 del 2013 che – come noto – ha introdotto, quale misura generale di prevenzione dei conflitti tra interessi particolari e interesse pubblico, una nuova disciplina della conferibilità e delle incompatibilità degli incarichi nelle pubbliche amministrazioni, fortemente innovativa rispetto alla disciplina previgente.
L’ambito soggettivo di applicazione concerne gli incarichi amministrativi, quelli di vertice e quelli dirigenziali, ed in particolare: le cause di inconferibilità/incompatibilità (condanna per reati penali anche non definitiva; provenienza da imprese regolate o finanziate dalle pubbliche amministrazioni; provenienza da organi di indirizzo politico), l’applicazione a tutti i livelli di governo, la previsione di sanzioni specifiche in caso di violazione delle richiamate disposizioni.
In particolare, giusta l’art. 7, primo comma, della disciplina del 2013 si prevede che per coloro che nei due anni precedenti siano stati componenti della giunta o del consiglio della regione che conferisce l’incarico,ovvero nell’anno precedente siano stati componenti della giunta o del consiglio di una provincia o di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti della medesima regione o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione della medesima regione,oppure siano stati presidente o amministratore delegato di un ente di diritto privato in controllo pubblico da parte della regione, ovvero da parte di uno degli enti locali rientranti nella fattispecie:”non possono essere conferiti:
a) gli incarichi amministrativi di vertice della regione;
b) gli incarichi dirigenziali nell’amministrazione regionale;
c) gli incarichi di amministratore di ente pubblico di livello
regionale;
d) gli incarichi di amministratore di ente di diritto privato in
controllo pubblico di livello regionale”