A cura di Gaetano Armao
Docente di diritto amministrativo europeo e contabilità pubblica nell’Università di Palermo.
Il Masterplan per il Mezzogiorno, e nel suo contesto il c.d. patto per la Sicilia, più che programmi incentrati su idee-guida di crescita e sviluppo appaiono come liste di interventi, spesso risalenti nel tempo, finanziati con risorse in gran parte già precedentemente stanziate, senza una programmazione d’insieme, carenti di criteri territoriali di allocazione.
La vicenda è emblematica di come, lungi dall’elaborare un innovativo programma rilancio per un Sud sempre più marginale, povero, deindustrializzato, invecchiato, si utilizzano scorciatoie finanziarie su “nuovi stanziamenti”, ma senza considerare che la gran parte degli indicatori economici per il Mezzogiorno rivelano una gravissima crisi, con qualche rimbalzo in agricoltura e la sola decisa controtendenza del turismo che beneficia della drammatica crisi politica e sociale del basso mediterraneo.
La legge di Stabilità 2014, ha determinato che l’80% della dotazione del Fondo di sviluppo e coesione (FSC) sia destinata al Sud (drasticamente ridotta rispetto ai 100md€ della precedente dotazione 2007-13), ma dei 30 md€ disponibili (in gran parte utilizzabili solo nel 2018-19) ai patti vanno solo 13,5 md€, mentre nulla si dice delle restanti risorse, già ridotte da prelievi per le iniziative più disparate da parte del CIPE.
Il Mezzogiorno soffre di drammatici problemi di crescita di povertà, denatalità, emigrazione, sopratutto intellettuale, desertificazione imprenditoriale, endemica incapacità di attrarre investimenti. Ma con quale modello di crescita si vuole affrontare una crisi ormai consolidata?
Si prendano, ad esempio, le misure inserite nel c.d. patto per la Sicilia (deliberazione della Giunta regionale del 10 settembre 2016, n. 301 recante: “Patto per lo sviluppo della Regione siciliana – Attuazione degli interventi e individuazione delle aree di intervento strategiche per il territorio – Approvazione”).
Non diversamente da quanto avvenuto con i “patti” di Catania e Palermo, anche quello della Sicilia contiene interventi, con risorse finanziarie già da tempo assegnate ai territori dal FSC, presentati come se si trattasse di nuovi investimenti.
Certamente dovrebbe assumere un ruolo prioritario l’investimento nella formazione universitaria di fronte al fenomeno migratorio che determina il progressivo spopolamento delle università meridionali. Come noto, infatti, queste ultime subiscono insieme alla drastica riduzione di trasferimenti statali un decremento delle immatricolazioni, a causa dell’accresciuta propensione degli studenti a migrare verso gli atenei del Nord, soprattutto tra quelli dotati di una migliore preparazione di base ed un più consistente supporto economico familiare.
Purtroppo il lungo elenco di misure (oltre mille, in un fitto elenco di 26 pagine) offre solo una risposta estemporanea, una vera e propria lista della spesa. Appare carente, infatti, una linea metodologica per questi pur parziali investimenti e risultano sovrapposte micro e macro iniziative, in taluni casi evidentemente precipitate in questo contesto per assecondare le pressioni provenienti dai territori, piuttosto che determinate da una “visione” strategica di sviluppo, ancor più necessaria oggi di fronte alla rarefazione delle risorse disponibili.
E così, un primo dato emerge dalla pianificazione elaborata: non sembra si sia posto rimedio alle storture che hanno connotato le più recenti vicende di impiego delle risorse europee, abbandonando il vecchio sistema caratterizzato da una eccessiva frammentazione delle decisioni di spesa ed un’estensione a dismisura della frontiera degli interventi, aggravate dai crescenti limiti della capacità amministrativa.
Mentre forme di sostegno alla produzione assumono un rilievo marginale sia sul piano qualitativo che quantitativo. Ed in tal senso la modesta entità delle risorse dedicate alla fiscalità di sviluppo (solo 30mn€), fondamentale per favorire la nascita di nuove imprese ed attrarre investimenti, risulta emblematica.
Come pure non può non sottolinearli l’incongruità delle risorse destinate a costituire il fondo di rotazione per la progettazione che ammonta a soli 10 mm€ (ai quali si aggiungono 500m€ con analoga finalità ma destinati alla prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico) su una dotazione finanziaria di circa 5md€ di interventi (Sulle vicende che hanno condotto alla riforma delle misure di coesione in Italia tra il 2001 ed il 2012 sia consentito rinviare al contributo da me curato “Federalismo fiscale e perequazione: l’autonomia della responsabilità”, Roma, 2013).
Quella del fondo di rotazione per la progettazione, essenziale per garantire la più agevole cantierabilitá delle opere pubbliche, é una lunga vicenda. La prima iniziativa risale alla L.R. n. 10 del 1993 che introdusse l’art. 5 ter alla L.R. n. 21 del 1985, l’innovativo istituto tuttavia non trovó applicazione tanto da essere riveduto dall’art. 43 della L.R. n. 2 del 2002 e con la previsione di uno stanziamento di 15 mn€. Anche questa normativa ha stentato a trovare applicazione, sopratutto per motivi di ordine finanziario, tanto che con l’art. 31 della L.R. n. 6 del 2009 si é offerta una nuova e più puntuale disciplina che ha rinvenuto la copertura finanziaria nei fondi FAS destinati alla Sicilia per 150mn€, fondi che tuttavia non poterono essere utilizzati per la decisione del governo statale di bloccarne l’assegnazione facendoli confluire nel FSC nel 2011.
Tornando a trattare del c.d. “Patto per la Sicilia”, la circostanza che la gran parte degli investimenti risulti già assegnata dalla programmazione statale alla Sicilia (con recupero di fondi già attribuiti nel ciclo 2007-2013 o dal CIPE già nel 2012) impone di riconsiderarne l’impatto finanziario. È indiscutibile, infatti, che si tratta in buona parte delle stesse risorse che dopo la paralisi degli ultimi anni avrebbero dovuto essere spese e che vengono adesso riprogrammate allungando i tempi di realizzazione di opere ed iniziative.
Addirittura si rinvengono interventi di poche migliaia di euro per il restauro di addobbi sacri accanto ad interventi non meno marginali finanziati ai sensi dell’art. 38 dello Statuto regionale siciliano (e quindi con risorse di sicura pertinenza regionale).
Va poi ricordato, come già ha puntualizzato Gianfranco Viesti, che se appare utile una ricognizione degli interventi già previsti e finanziati, fatta congiuntamente fra amministrazioni centrali e locali, e la condivisione delle priorità e delle reciproche responsabilità, tuttavia l’intero piano di spesa manca del tutto di “addizionalità” delle risorse (le risorse aggiuntive non possono sostituirsi a quelle della politica ordinaria).
In altre parole, lo Stato, da un lato, ha sostanzialmente ridotto la spesa ordinaria per la perequazione infrastrutturale, dall’altro, utilizza i fondi strutturali per coprire gli effetti di questo drastico contenimento finanziario.
In tal senso anche la Commissione UE, interpellata sul punto, ha rilevato alcuni profili di tale patologia italiana, riservandosi tuttavia di intervenire nella valutazione ex post del ciclo di spesa dei fondi strutturali 2007-2013.
Va infine registrata la carenza di collegamento tra il Masterplan ed il Fondo europeo per gli investimenti strategici (il c.d. “Piano Junker”) che dovrebbe rilanciare la crescita europea. Si pensi che i 300 min€ di risorse assegnate a Trenitalia per l’acquisto di materiale rotabile sono destinati solo a Lazio, Liguria, Veneto, Piemonte e Toscana, mentre dei 500mn€ stanziati per la banda larga solo il 30% sarà impiegata nel Mezzogiorno, nonostante in quest’area si registri il maggior ritardo nell’ammodernamento della rete.
E così nell’elenco approvato dalla Commissione UE – quasi a contraddistinguere emblematicamente il livello di innovazione delle politiche di sviluppo per l’Isola, per decenni connotate da preminenza della trasformazione di prodotti petroliferi – l’unico intervento per la Sicilia risulta quello (per 110 mn€), destinato alla Raffineria di Milazzo.
Se come dimostrano le recenti “Lezioni sul meridionalismo”, curate da S. Cassese (Pubblicate da il Mulino, Bologna, 2016), il paradigma del dualismo costituisce ormai una “semplificazione non più corrispondente alla realtà”, proprio per il demoltiplicarsi dei divari del Mezzogiorno, tuttavia consolidare tale assetto con disequilibri negli investimenti tra Nord e Sud non può che appesantire tali divari, incidendo sulla coesione del Paese, ma anche dell’Europa.
In questo contesto, poi, le poche seppur oggettive novità del Masterplan sulla razionalizzazione organizzativa e l’accelerazione della spesa incrociano la situazione di stallo degli appalti determinati dal varo di una riforma del codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016) ancora impantanata nell’attuazione e, come precisato dai dati, paralizzante per il settore degli appalti di lavori e forniture (leggi articolo).
Di conseguenza dopo le recenti misure, piuttosto che un approccio sbrigativamente risolutivo sul tema del Mezzogiorno, dovrebbe prevalere la cautela e la capacità di adottare strumenti correttivi.
Qualche anno fa E. Felice si chiedeva “perché il Sud è rimasto indietro”, dopo questi ultimi anni di drastica riduzione della spesa statale per investimenti nel Meridione e di perdita di strategia di sviluppo, la risposta – purtroppo – non potrà che essere più chiara se non si introducono talune modifiche di prospettiva alle misure adottate per il Mezzogiorno in questi mesi.