di Gaetano Armao
Guido Savagnone e Nicolò Curella, due grandi banchieri siciliani, ci hanno lasciato. Ne rievoco insieme le figure, pur se le loro esperienze sono state profondamente diverse. Ad entrambi ero molto legato e questo mi induce a ricordarli, ma la circostanza che la morte li abbia colti nello stesso giorno è occasione anche per riflettere sull’essenziale ruolo delle banche per lo sviluppo della Sicilia, che amarono e per la quale lavorarono.
Il primo (allievo di mio nonno, legale principale del Servizio contenzioso del Banco di Sicilia, come amava ripetermi ogni qual volta lo incontravo), ha ricoperto i più importanti ruoli della principale banca pubblica siciliana che i poteri romani vollero schiacciare. Basta ricordare quel che ha fatto lo Stato oggi per il salvataggio di una banca come il Monte dei Paschi di Siena – costato agli italiani almeno quattro volte più di quanto era necessario per la banca siciliana – per comprendere che il Banco di Sicilia poteva avere ben altra sorte. In poco tempo a Roma si decise di far fagocitare le banche pubbliche siciliane (BdS e Sicilcassa) per rafforzare le banche care ai poteri centrali.
Guido Savagnone traghettò il Banco nella fase delicatissima della trasformazione in S.p.A., con autorevolezza, ben consapevole che questo avrebbe fatto emergere alcune debolezze che lo schermo dell’ente pubblico economico metteva in secondo piano. Ma i poteri centrali avevano già deciso che il Banco – come la Cassa – dovevano morire, derubando la Sicilia di un immenso patrimonio di professionalità, di beni e di opportunità. Si oppose come poté, ma prevalsero le logiche della finanza romana e milanese, che ancora oggi spadroneggiano nel Paese ai danni del Sud.
Più tardi anch’io fui coinvolto nella difesa dell’autonomia del Banco, in occasione del confronto con Banca di Roma, ma ormai era troppo tardi e la determinazione delle autorità monetarie irremovibile. Il resto lo fece una classe politica siciliana piegata agli interessi nazionali. Oggi, a causa di quelle scelte scellerate, il Banco è divenuto poco più che una rete di vendita di prodotti bancari di un pur rilevante gruppo creditizio europeo.
Nicolò Curella, esponente di una grande famiglia imprenditoriale siciliana, ha guidato lungo diverse fasi la più importante realtà bancaria privata siciliana (Banca Popolare Sant’Angelo), resistendo con valore, anzi rafforzando l’attività, all’avvento nel mercato bancario regionale delle banche nazionali.
Il presidente Curella mai fu intimorito dalla concorrenza ed ha avuto il coraggio di ristrutturare la propria azienda e poi di guidarne la riespansione a sostegno dell’economia regionale, quando molti altri hanno scelto la facile strada della cessione integrale a gruppi bancari nazionali. Un banchiere innovativo e dinamico, ma anche attento alle prospettive di crescita della Sicilia tanto da dar vita alla principale Fondazione di ricerche economiche che da più di trent’anni è protagonista del dibattito sullo sviluppo isolano e del Mezzogiorno.
Era un uomo estremamente garbato, interlocutore al contempo di esponenti di primo piano della finanza e di maestri della tecnica bancaria con la dignità di chi operava in una terra difficile, ma anche capace di innovazione e di scelte intraprendenti. La sua banca continua coraggiosamente ad operare, ormai una delle pochissime realtà siciliane, in un mercato nel quale i centri decisionali sono in gran parte fuori dal territorio regionale. E della dipendenza quasi totale da imprese bancarie non regionali, proprio di una propaggine dell’impero, porta a farne le spese le imprese e le famiglie siciliane.
Due figure da ricordare pensando ad un futuro di crescita per la Sicilia, per il quale si batterono. Un futuro che non può che passare per il rafforzamento delle istituzioni finanziarie siciliane perché senza credito non ci può essere possibilità di ripresa per la nostra Regione.